lessico meridionale
Quando il pianista può fare la differenza
Accendo la tv e mi arriva l’abbraccio di note stupende, quelle del «Va pensiero» verdiano. Sorpresa! Al «Festival della canzone italiana» suonano questo capolavoro!
È capitato, in una sera sanremese, di accendere il televisore per abitudine, senza badare al canale. Mi arriva l’abbraccio di note stupende, quelle del «Va pensiero» verdiano. Scopro di avere sintonizzato RAI1. Sorpresa! Al «Festival della canzone italiana» suonano questo capolavoro! La mia lode: gli autori hanno, con una semplice scelta della scaletta musicale, scritto una pagina in cui si narra che la musica è «popolare» sempre. Nella storia il genio musicale italiano ha scritto pagine magnifiche. Il buon auspicio al Festival è stato pronunciato. Ho provato il rimorso per qualche pregressa smorfia di dissenso.
Divaghiamo: è meglio avere rimorsi che rimpianti. Uno dei crucci che catalogo tra questi è di non aver studiato musica. Studiato intendo, non strapazzato uno strumento. Questa è faccenda nostrana, tipica della superficialità un po’ cialtrona degli Italiani che abitano, si, la terra più musicale del mondo, ma, succede, conoscono poco la musica e, se suonano, talora strimpellano, accennano, vanno a orecchio. Euterpe Musa forse disertava spesso il monte Elicona solo per venire in villeggiatura in Italia e deve aver lasciato da queste parti una grande amore per la arte che proteggeva, ma ottenendo scarsa dedizione, insomma solo una meravigliosa inclinazione e poca attitudine al lavoro.
Com’è della italica indole, a bilanciare una certa inettitudine ci sono stati geni indiscutibili, abilità somma nell’improvvisazione e tradizioni eccelse, nonché la mansione della terra natale della musica. E anche Festival di canzoni. Ma, penso che una vera educazione musicale sia altro. A smentirmi potrebbero ricordarmi l’ottimo e infaticabile lavoro svolto dai Conservatori e Istituti d’insegnamento musicale che lavorano bene nel nostro Paese. Accetto e mi scuso.
Io stesso sono stato al tempo stesso vittima e colpevole di lesa musica non avendo mai avuto la pazienza di studiarla con il doveroso accanimento, con la diligenza paziente che, sola, è indice di vero amore. Ma, tant’è. Diciamo a mia discolpa che ai «miei tempi» (che stonatura, questa locuzione!) era già tanto imparare a leggere, scrivere e far di conto. A scuola la «musica e il canto corale» era una voce sulla pagella delle elementari, diciamo così, di comodo, utile a riequilibrare medie traballanti. Risultato: Mirabella Michele, V elementare, promosso con voti alti in tutte le materie, canto corale compreso, non aveva mai toccato neanche un tamburo che non fosse una delle pentole della cucina. Ma, per il pianoforte, mi rimase la curiosità e l’amore indiscusso.
Consulto il Gonfalonieri: «Storia della Musica»: «È il simbolo del raccoglimento musicale romantico, un confidente delle solitudini e dei sogni che si aspetta di vedere un giorno tradotti in eterne realtà spirituali». Lo inventò tale Bartolomeo Cristofori, padovano (1655-1731) e il nuovo strumento ebbe infanzia lunga: prima di sconfiggere il clavicembalo passeranno cent’anni. Il pianoforte, con la sua nuova tecnica dei martelletti che percuotevano le corde secondo l’asse del dito, sembra che riesca a prolungare i nostri arti protesi nell’accontentare l’intelligenza che brama la musica. La persona e lo strumento sono un tutt’uno com’era stato solo per gli strumenti ad arco e per i fiati sommamente. Un contatto amoroso tra il pianista e il pianoforte. La sua nota è effimera e fatalmente non si tiene, si spegne, ma con il gioco dei pedali e la virtù del tocco diviene strumento «polifonico». Ed è strumento che crea atmosfere ineffabili altrimenti, ariosità sonore, evocazioni di suoni trascorsi, luci ed ombre addirittura. Ed ecco riverberi, echi, richiami subitanei, sonorità imperiose. Ancora Confalonieri: «La sua grande estensione, dal più grave al più acuto, gli consente di esprimere contrasti capricciosi ed improvvisi, lo rende adatto ad esprimere in modo speciale a seguire le divagazioni dello spirito solingo, le “reverie” dell’anima, gli slanci un po’ passivi del cuore».
Un solo artista, un solo uomo è in grado di farsi raccontare da questa grande cetra nera ed orizzontale un miracolo di confidenze armoniose, imperiose rapsodie, intimi soliloqui: apre scrigni di tesori musicali e si accredita come unico eroe dell’avventura incomparabile della musica. È strumento per amichevoli stanze solitarie di poeti notturni, ma anche regale segno di comando quando è issato sul palcoscenico per inondarci di comandi al cuore per snidare quelle profonde ragioni occulte anche alla ragione. Raccoglie confidenze e fa suoi i proclami il perfetto, ineguagliabile strumento sia quando sa essere solo ed eloquente, sia se colloquia, discorre, contrasta d’amore con l’orchestra.
E, allora, perché dare del «pianista» a chi trasgredisce regole, stile, correttezza? Quale musica suona il furbacchione che in Parlamento vota anche per i colleghi assenti, ingannando i cittadini? Come un imbroglione qualunque e non un rappresentante del popolo. Perché chiamarlo «pianista», per la mimica, forse? Ma non vedete com’è sgraziato, ripugnante? Trovate per questa gente altri appellativi, brutalizzateli con altri nomignoli, lasciate in pace il pianoforte. È altra musica. E non invitateli a Sanremo.