lessico meridionale

«Tengo famiglia», un motto per giustificare gli illeciti

Michele Mirabella

E ai nostri figli sempre più a rischio insegniamo i veri valori

Il vecchio e saggio Longanesi propose di scrivere sulla bandiera italiana un motto che riassumeva una constatazione dei fatti nostri verificata dagli storici, appurata dai cronisti, dagli stranieri in visita, vituperata dai moralisti: «Tengo famiglia». Due parole impeccabilmente esaurienti di una vicenda umana, quella italiana, che portava alla contemplazione del mistero tutto nostro, al tempo stesso scioccamente gaudioso e doloroso del Rosario della vita quotidiana, in cui si narra della unicità del fenomeno famiglia nel Paese dove, a dire di Goethe, fioriscono i limoni, ma, coi limoni, tanti altri frutti più aspri.
Per Longanesi quel «tengo famiglia» era la istituzionalizzazione della più praticata scusante, e anche della più patetica, usata dagli Italiani per smussare le colpe, attutire le responsabilità, indulgere alle infrazioni dello stato di diritto, giustificare i comportamenti violenti, assolvere dai reati, infine. La famiglia, insomma, è convocata a svolgere una funzione perniciosa, quella di manomettere le leggi in nome del tribale interesse della continuazione non della vita, ma della stirpe, assicurata da quella feroce forma di rispetto per un valore unico e indiscusso. Tutto il resto non conta, conta la famiglia e il suo ringhioso arroccarsi nelle mura dell’egoismo del sangue comune.

Notoriamente, questa, è una stupidaggine, ma è il residuo storico di una occhiuta cura assolutistica per il privato interesse confinato nell’alveo della cerchia genetica. Una rocca assediata dagli altri, da tutti gli altri. Non conta il popolo, non conta lo Stato con le sue leggi, non contano il prossimo, conta la famiglia. Un sociologo americano, Edward Banfield, già negli Anni Cinquanta parlò, a proposito del caso Italia, del fenomeno italiota che designò con un termine allarmante: «Familismo amorale». Quello studio si ispirava all’analisi delle forme di convivenza sociale di uno dei Paesi, al tempo stesso, più moderni e più antichi del mondo il quale presentava, e ancora presenta aspetti, inediti altrove, di maleducazione e brutalità di costumi, di ritardi socio-culturali e di criminalità organizzata (parlo di tutte le mafie) irrintracciabili altrove.

Longanesi non aveva letto quello studio, ma aveva intuito che quel motto servile «Tengo famiglia» riassumeva un carattere italiano che è tutto un programma. Gli è che sono chiare le ragioni dell’arroccamento domestico e consistono tutte nella lunga e amara vicissitudine storica del Paese per secoli dominato, iugulato, sfruttato da stranieri e dominatori sanguisughe. La predazione non ha trovato quasi mai la resistenza di un popolo che non poteva che languire, privo com’era, di una classe dirigente nazionale cosciente e onesta. Basta. Il resto è storia moderna. Però ancora la famiglia si presenta in scena spesso come argomento sociale. Questo è giusto nel metodo dello studio sociologico. Ma il volgar gergo comune, spesso convoca il tema nell’uso del costume e della società. Il lettore perdonerà la lunga introduzione, ma mi è servita anche a far sbollire lo sdegno per un luogo comune, quello dello stupirsi che certi fenomeni criminali, una certa violenza, lo stupro delle leggi e della tolleranza reciproca possano essere interpretati e attivati da giovani «di buona famiglia». Mi piacerebbe veder sparire questo orribile frase, questa sciocca sorpresa mischiata ai tentativi di razionalizzare l’orrore a smistarne la paura nella incredulità.
Qualche tempo fa un ragazzo è stato quasi ucciso in una contesa da discoteca, in un idiota alterco teppistico senza alcuna attenuante per i colpevoli. Successe in una città del Lazio e gli assassini hanno meritato l’ergastolo. Nel dibattito processuale furono definiti di «buona famiglia».

E, infatti, i media si ostinano, con complice stupore, a insistere che erano tutti «di buona famiglia» i protagonisti di liti criminali. Come molti altri delinquenti del sabato sera. Che cosa vuol dire? Che ci sono delle famiglie «buone» in cui si insegnerebbe a non ammazzare un coetaneo, a non provocarlo tempestandolo di ghiaccioli, a non insidiargli la fidanzata? E, allora, perché viziano i figli in modo irresponsabile, danno loro il permesso di «far notte» nelle discoteche stipate di musica orrenda e di orrendi «consumi», li forniscono di auto superveloci per raggiungere qualche «movida» lontana anche decine di chilometri? Io credo che, se mai, le «buone famiglie» per meritare questo titolo, dovrebbero scegliere di faticare per insegnare che qualsiasi mezzo è buono per restare buone famiglie, e, cioè, avere vantaggi sociali, orizzonti esistenziali sereni e riservati e altezzosità turistica. Qualsiasi mezzo, pur di non diventare cattive famiglie. Cioè povere, senza lussi e privilegi. E soldi per la «movida». E allora? In dialetto il lavoro vero, duro, indispensabile si chiama «fatica». Non sempre i figli di buone famiglie ne conoscono il significato. È un pezzo che io ho paura dei ragazzi di buona famiglia. Da loro mi guardi Iddio che da quelli di cattiva famiglia mi guardo io.

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