C’era una casa al primo piano di una strada stretta di Veglie, in provincia di Lecce, dove a Natale e Capodanno accadeva qualcosa di straordinario. Anzi no, era ordinario. Diventava — e tuttora nel ricordo resta, tanto era potente — fuori dal comune perché alle feste abbiamo dato, per consuetudine assurta a regola, un involucro dorato, barocco, uso a catturare lo sguardo, ma che nella maggior parte dei casi cela il vuoto. In quella casa le festività erano natalizie davvero: l’involucro era un foglio stropicciato, appiccicato in fretta e furia, ma dentro, dentro c’era il regalo più puro, lo spirito del Natale. Era casa di Fabrizia.
Bella e scapigliata, libera e ribelle, che ai tempi delle streghe sarebbe stata messa al rogo. E ha saputo dribblare anche i roghi della contemporaneità, quelli delle malelingue e dei “vade retro” urlato a tutto ciò che si discosta dalla massa e quindi fa paura.
Cosa accadeva in questo periodo in quella casa? C’era un tavolaccio grande, salita una rampa di scale, nella sala principale. Tutti intorno, festante, un microcosmo parallelo di amici a quattro zampe di taglie diverse che ti saltavano addosso. Le notti delle vigilie il portoncino dabbasso e la porta in cima alle scale erano aperti. Nessuna telefonata, nessun messaggio copincollato grondante frasi belle e brutta ipocrisia, solo un tam tam silenzioso. Chi doveva sapere sapeva che in quelle notti quel tavolo sarebbe stato imbandito e ospitale per gli «ultimi». Quelli che sono ultimi in realtà per becero preconcetto, per occhi troppo ciechi per vedere l’essenziale. Quella sera di qualche anno fa, prima della pandemia, prima del dolore che sarebbe entrato, accolto dallo stesso rispetto, proprio da quella porta, il primo ingresso fu di una donna minuta, viveva in campagna, portava con sé bottiglie di succo di melograno fresco, spremuto con amore in casa. Era tutto ciò che aveva, per questo valeva tanto.
Alla spicciolata, dopo di lei, salì un ragazzo ritenuto picchiatello; in realtà era solo timido al punto da passare troppo tempo in casa, dove si era specializzato a preparare dolci soffici e golosi che portò con sé. E poi fu la volta di un tale che qualche casino con la giustizia l’aveva avuto. Si era ravveduto, ma non era bastato per uscire dai margini in cui quelli che ben pensano l’avevano relegato. Portava con sé sigarette, il suo vizio e la sua virtù. E poi una bimba, che desiderava avere accanto Gerry Scotti, e Fabrizia si era data da fare per far realizzare un cartonato a grandezza naturale, così che anche il volto TV brindò con noi. Ancora, una signora un po’ tonda, divertente da morire. Audiolesa dalla nascita, guardava le labbra tanto da riuscire a capire ogni parola e a rispondere a modo suo. Non servivano registri o linguaggi codificati, dove parla l’anima c’è spazio per tutti. Ognuno portò un po’ di sé, della sua storia, del suo dolore e della sua verità. Fabrizia fece tutto il resto. Lo faceva sempre, da sempre. Perché chi non conosceva più, o non aveva mai conosciuto, il Natale o il Capodanno potesse avere finalmente il suo.
Lontano dal mainstream, da selfie e filtri, Solidarietà a favore di camera, ostentazione di ciò che vorremmo essere così distante dalle nostre realtà interiori. Santi e peccatori a quel tavolo: persone. Unite dal coraggio, il coraggio di essere se stessi, sempre più merce rara. Il coraggio delle azioni più nobili o più turpi, per guardare l’altro e se stessi fissi negli occhi senza mai abbassare lo sguardo. Nessuna perfezione, solo verità. Come vero e imperfetto è l’uomo, lungi dagli avatar in cui ci siamo trasformati per abitare realtà virtuali.
Furono le ultime feste con Fabrizia, per me, quell’anno. Qualche mese più tardi, a giugno, lei avrebbe lasciato quel tavolo per raggiungere un’altra dimensione, dopo una lunga, dignitosa ma impari lotta contro un male più grande di tutti. E sarebbe andata via stringendo un Rosario, lei che a quel Dio che per gli uomini di ogni dove ha tanti nomi e interpretazioni, sorridendo alla fede. Che è certa, più di quel Dio stesso, tanto è provata sulla nostra pelle.
Fede e fiducia, parole dalla stessa radice. Le era tornato indietro ciò che aveva dato: lealtà, impegno.
Cercavo una storia di Natale finché non ho pulito le lenti con cui mi guardavo attorno. E attorno c’è l’universo straordinario delle storie dei piccoli, che meritano di essere raccontate perché fanno grande il quotidiano. Tra la gente comune, l’umanità ancora stupisce in positivo. Ed è bello. Come la speranza.
















