LEVERANO - 15.30 ora italiana. A Chiang Rai, Thailandia del nord, sono le 20.30. Sulla rete wi-fi di una chiamata che valica paralleli e meridiani, scorre la sintesi della vita di un salentino votato alla medicina e alla ricerca come missione.
Carlo Perrone, 41 anni, ha radici salentine – di Leverano (Lecce) per essere pignoli – da parte di padre e inglesi da parte di madre, vive dall’altra parte del mondo dove con un team di colleghi thailandesi studia per mettere a punto risposte pratiche a malattie infettive e tropicali che laggiù sono ancora causa di morte.
Ha il ventilatore acceso, a Chiang Rai fa caldo e «stanno arrivando i monsoni», dice pacato, senza scomporsi. Reduce da una breve vacanza in terra salentina, con amici e familiari, è già calato appieno nel suo lavoro. Nella squadra del Mahidol Oxford Tropical Medicine Research Unit - MORU - fondato negli anni Ottanta per studiare la malaria.
«Durante il master ho scritto una tesi sul Tifo Fluviale Giapponese e ho avuto la fortuna di lavorare con il gruppo di ricerca MORU, uno dei più importanti al mondo, che si occupa di questa malattia e di medicina tropicale. Oggi c’è una cura, un antibiotico che però funziona solo se la malattia è diagnosticata in tempo, è una delle malattie meno studiate. Attualmente stiamo lavorando a due grossi tronconi, stiamo anche concludendo un altro progetto per capire quali siano qui le cause più comuni di febbre, malaria, dengue, lettospirosi, tifo fluviale».
Pacato, chiaro, semplice. Zero sicumera, tanta competenza e un amore incondizionato per la sua professione. Partita con un test d’ingresso all’università di Padova, ripetuto due volte.
«Volevo fare il medico al tempo, ma non per papà - che è oculista di fama, ndr -, o forse sì a livello subconscio, mi sembrava una scelta giusta perché dava opportunità lavorative che sono relativamente buone».
Durante l’Erasmus in Norvegia il primo switch. «Ho apprezzato la possibilità di vedere realtà nuove e fare cose esperienze formative piacevoli, così ho deciso di andare all’estero. Ho iniziato in Svizzera, poi sono andato in Germania per imparare la lingua e a Berlino ho frequentato corsi intensivi e preso anche l’abilitazione per esercitare in loco la mia professione».
Quattro anni e passa da medico all’Università di Berna, poi l’inizio da ricercatore e «dopo anni di medicina interna sono finito a malattie infettive e medicina tropicale e mi sono postato a Bangkok per prendere un diploma proprio in medicina tropicale. Ho frequentato un master e ho cercato un lavoro in Thailandia».
Un grande amore, ricambiato.
Altruismo e piacere di lavorare «per sconfiggere malattie importanti poco studiate», mix perfetto. Carlo era lì quando il terremoto del Myanmar ha seminato morte e dolore, e ha continuato a fare il suo dovere.
Quali similitudini e quali divari vive da salentino in terra tailandese è presto detto. «Ci sono diverse similitudini. Qui come da noi, sono molto legati alla famiglia, alle opinioni della famiglia, al cibo. Sono stato accolto bene, sono amichevoli, vige il motto “vivi e lascia vivere”, pochissima violenza nel quotidiano però c’è anche un volto cui ancora non riesco ad accedere, che rimane riservato. Mi mancano il formaggio e il salame, la pasta me la preparo, una pizza buona c’è, non ottima ma accettabile. Da italiano credo di riuscire a trasmettere una certa passione nello scoprire nuove cose e trovare soluzioni creative ai problemi e agli ostacoli. Qui son soliti prendere la vita con filosofia, si arrabbiano poco e affrontano quasi tutto col sorriso».
Si sente europeo, il dott. Perrone. Più che italiano, salentino o cittadino del mondo. La prossima sfida? «Continuare la ricerca in Thailandia per proseguire i miei progetti, ma allargarami all’Europa».
La prima parola che ha imparato in Thailandia? «Aroy, che vuol dire buono».