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Caterina Gerardi, femminismo istintivo

Luisa Ruggio

C’è una botola sotto il tavolo della cucina, le pareti raccontano una carrellata di anni inquadrati da una serie di fotografie in bianco e nero. Molte di quelle fotografie, sono state sviluppate in casa, proprio sotto la botola c’è la camera oscura che Caterina Gerardi ha abitato alla stregua di qualunque altra stanza tutta per sé. La sua casa, a Lecce, si è riempita di tutti quei viaggi che ha intrapreso con la macchina fotografica, sua compagna di vita, in cammino dentro quegli altrove teorici e geografici, talvolta nascosti dietro l’angolo di una provincia che negli anni ’70 e ’80 nascondeva il suo vero volto.

Il viaggio della fotografa e regista salentina, è cominciato più di ottant’anni fa ad Arnesano, un piccolo paese del Salento che tutti volevano lasciare. Caterina Gerardi ha scelto di restare, ha trasfigurato la sua ricerca fotografica in un viaggio alla scoperta di quel che nessun altro voleva vedere. Un esempio? Le masserie abbandonate a ridosso del mare Adriatico, masserie che si sono riempite di porno-graffiti e sono diventate la diaristica sommersa di un’altra Lecce. Quella ritratta da Caterina Gerardi in una delle sue mostre fotografiche più provocatorie, Dietro le Gelosie, poi seguita da Le figlie di Teuta – Donne d’Albania, Password e tutta una serie di lavori attenti ad aprire porte, argomenti altrimenti destinati a restare chiusi, sino all’apice costituito dalla Conversazione con Nexmije Hoxha – Enver mio compagno di lotta e di vita, Come farò a diventare un mito. Omaggio a Rina Durante, Nella Casa di Borgo San Nicola, Con le donne del carcere, L’isola di Rina che spinse il viaggio della Gerardi sino a Saseno, l’isola dove l’intellettuale Rina Durante trascorse l’infanzia. Durante e Gerardi si somigliavano ancor prima di conoscersi, sin da bambine non amavano l’ingombro della gonna e sognavano quella libertà che è la pratica quotidiana necessaria agli incontri come il loro. Erano gli anni in cui le donne avevano smesso di abbassare lo sguardo. Eppure, se le si chiede che cosa è cambiato da allora, com’era percepito il movimento femminista nel Salento degli anni ’70 rispetto a quello di oggi, Caterina Gerardi risponde: «Io vivo sempre nel presente. E tutte le cose che ho fatto sono naturalmente femministe, non perché ho studiato, ma perché mi è venuto spontaneo».

E com’è cominciato, allora, questo femminismo istintivo nella sua vita?
«È iniziato dentro la mia famiglia, perché mia sorella era diversa da me, ricamava e andava in chiesa, io ero ribelle, andavo a scuola e lì mi sgridavano perché mi ribellavo».

Dopo questa prima educazione ribelle, chi è stata la musa rivoluzionaria?
«Rina Durante era la rivoluzionaria. Io vivevo ad Arnesano, un paese claustrofobico, tutto quello che poi ho fatto - come la Casa delle Donne che ho creato in via Palmieri a Lecce - è avvenuto nella dimensione della città, in paese no, perché era complicato gestire certe innovazioni e spiegarle alla mia famiglia. Quand’ero ragazza, mia madre mi diceva: “Figlia mia, eppure t’aggiu
misa lu nume de na grande santa!”. Malgrado il suo omaggio a Santa Caterina da Siena, sono partita dal rifiuto di quel che la famiglia si aspettava da me in quanto figlia femmina».
E da grande, da fotografa, qual è stato il lavoro più difficile tra quelli dedicati alle donne?
«Il lavoro fatto in Albania, perché all’epoca le donne albanesi non comparivano mai e quando realizzai Le figlie di Teuta, le donne albanesi erano invisibili. Anche il lavoro in carcere, nel 2008, mi ha spinto a indagare una clausura involontaria».
Cosa raccontano tutti i suoi lavori fotografici, volendo cercare un filo rosso?
«Provocazioni, non erano ricerche ben viste da miei, mi esponevano. Quando ho cominciato a fotografare, sono diventata autonoma. La fotografia mi ha permesso di praticare la libertà. Quando facevo i sopralluoghi nelle masserie salentine abbandonate, sentivo ancora il fruscìo delle donne che avevano abitato quelle stanze. Per ribellarmi, mi sono inventata la fotografia, nessuno me l’ha insegnata, ho creato una Stanza della Fotografia con un ingranditore nella Casa delle Donne. In
quegli anni facevo l’insegnante, a scuola dicevo agli studenti di aprire l’antologia e verificare il numero delle scrittrici nel sommario. La disparità saltava agli occhi, le scrittrici erano sempre la  minoranza».
Oggi nelle antologie italiane resta assente la grande Rina Durante, come vi siete incontrate?
«Nel ’90 andai a trovarla con le fotografie che compongono Dietro le Gelosie, ma quando suonai al campanello lei aprì la porta solo a metà e mi disse “Chi ti conosce? Io non ho tempo da perdere!”. Tuttavia, prese le foto e dopo una settimana mi telefonò: “Sono Rina, voglio scrivere del tuo lavoro”. Da quel momento condividemmo molte cose con ironia, quasi sarcasmo, con la libertà fino all’ultimo momento della sua vita abbiamo praticato confrontandoci».

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