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Senza esercito né confini: distinguere tra patriarcato e misoginia?

dorella cianci

Il femminismo non ha eserciti e non ha confini, eppure cambia il mondo costantemente. Il femminismo nasce ogni volta che una donna si accorge che ciò che appare naturale è invece costruito, sedimentato, imposto. È in questo scarto fra “normalità” e “consapevolezza” che qualcosa accade ed è accaduto attraverso i secoli. In queste ore, è in libreria un bellissimo volume, edito da Einaudi, e curato dalla sociologa Rossella Ghigi, dal titolo Femminismi.

Un’antologia contemporanea, che riflette sul tema, includendo scritti di Simone de Beauvoir, Angela Davis, Carla Lonzi, Lea Melandri, Judith Butler, Nancy Fraser e molte altre, fino al noto movimento “Non una di meno”. Nell’introduzione, la sociologa ci ricorda come, perfino oggi, il termine “femminismo” riesce a essere ancora molto divisivo fra chi lo adotta acriticamente, chi lo
respinge con ostilità o chi lo interpreta come una stagione storica, ormai totalmente superata.

Scrive Ghigi: «Si parla oggi di nuovo patriarcato, di autodeterminazione, di intersezionalità, talvolta senza una completa cognizione né dei significati specifici di questi termini, né della genealogia dei saperi e delle pratiche che li hanno portati a diventare lenti, attraverso cui guardare il mondo». E così spuntano domande che ci fanno rendere sempre più conto del pressappochismo che campeggia sul tema. Sappiamo davvero dire che cosa differenzia il patriarcato dalla misoginia,
dalla discriminazione sessuale o dal sessismo? Come si legge nel prezioso volume qui menzionato, c’è qualcosa che davvero accomuna l’esperienza di una donna italiana borghese a quella di una migrante messicana, che - da clandestina - si spinge al confine con gli Stati Uniti?

Un’altra domanda: guardando alle grandi mobilitazioni collettive, possiamo a oggi ancora restringere l’interpretazione del femminismo a una localizzazione esclusivamente occidentale? La riflessione è ampia, tocca i percorsi storici così come tocca l’attualità e la pubblicazione di questo libro è un buon punto di partenza per tornare a riflettere sulla questione. Viene da chiedersi quanta attinenza c’è nel fatto che la nostra contemporaneità stia progressivamente ritrovando quella
pseudo-spinta (manipolata e manipolatoria) alla ricostruzione della famiglia tradizionale, che già attraversava e caratterizzava l’Europa del dopoguerra. Probabilmente è ancora necessaria la definizione della filosofa francese de Beauvoir, la quale nel saggio Il secondo sesso affermava: «Donna non si nasce, lo si diventa».
Possiamo forse concordare nel dire che il femminismo non è stato un fenomeno unico e compatto; ha conosciuto tensioni e profonde divergenze. Probabilmente dalle piazze di ieri e di oggi, dalle assemblee e negli scritti che leggiamo nell’antologia proposta da Einaudi, possiamo tracciare un filo comune: il femminismo, storicamente, ha soprattutto cercato di svincolare la donna dalla funzione di far qualcosa per gli altri. Non si tratta solo di una visione istituzionale, ma è una visione simbolica, che coinvolge radicalmente anche la riflessione pedagogica. Il femminismo non può limitarsi a reclamare leggi, bensì dovrebbe trasformare significati. Le battaglie femministe, quelle della prim’ora e quelle più recenti, devono necessariamente reinterpretare il mondo; ma siamo davvero convinti che, ad esempio, la pedagogia ha fatto per la donna quello che ha saputo
efficacemente fare per l’infanzia? È riuscita a renderla protagonista attiva, proprio come si è fatto con l’idea centrale del bambino?
La questione è complessa, non è facile rispondere, soprattutto perché, ora, guardare al femminismo vuol dire anche intersecare sfaccettati temi: l’identità di genere, l’orientamento sessuale, la condizione migratoria, che rimette in luce alcune situazioni femminili drammatiche (pensiamo alla questione delle donne afghane, a quelle iraniane, ai matrimoni forzati delle spose
bambine in Ciad…). Mettiamo accanto - idealmente - Simone de Beauvoir, Hannah Arendt e Iris Murdoch. L’accostamento, del tutto personale, potrebbe sembrare ardito, ma nei loro scritti, pur con le evidenti differenze, possiamo rintracciare una ridefinizione del potere come spazio fra le persone ed è in quello spazio che i movimenti femministi hanno strutturato, e ancora continuano a farlo, il rifiuto delle gerarchie rigide, proponendo la complessità delle relazioni e, dall’altro lato, la
rottura della cristallizzazione del “destino femminile”.
Il terremoto iniziale del femminismo ruotava intorno alla domanda “perché io non posso?”. Il femminismo contemporaneo è fatto di voci armoniche e disarmoniche, che ruotano intorno alla domanda “Chi può essere chi”? Il femminismo di ieri ci ha regalato una salda struttura: i diritti, la dignità, lo spazio per parlare. Il femminismo contemporaneo sta lavorando alla sua grammatica.

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