La riflessione

L’eterna violenza: monumenti nel mirino

Leonardo Petrocelli

L’eterno presente con la sua morale immanente, senza avi né eredi. Sempre in marcia. Con le barbe lunghe e le spranghe nelle mani

Avevano le barbe lunghe e gli abiti neri. Venivano dal deserto, o almeno così ci viene detto, e puntavano verso Palmira con la spietatezza di chi marcia con il sole in fronte e la verità in tasca. Nelle mani spranghe e bastoni. Forse qualche pietra. Un solo obiettivo: distruggere il tempio. E il tempio distrussero. Chi erano costoro? Facile, verrebbe da rispondere. I miliziani dell’Isis che il 23 agosto 2015 vandalizzarono il tempio di Baalshamin a Palmira e poi, una settimana dopo, quello di Bel. Un atto di feroce intolleranza contro antiche vestigia politeiste. Un “crimine di guerra” come lo definì l’Unesco. E invece no. Gli uomini barbuti armati di spranghe erano quelli che, più o meno nel 385 d.C., diedero l’assalto al tempio di Atena nella stessa città siriana, decapitandone la statua tra urla di gioia. Erano i fanatici cristiani raccontati da Catherine Nixey nel suo fortunato Nel nome della croce (Bollati Boringhieri), amaro volume che narra l’oltraggio cristiano al mondo classico e alle sue meraviglie.

Se non ci fossero quasi due millenni di mezzo la differenza non si noterebbe. E d’altra parte servono lo stesso Ente, in fondo, seppur attraverso strade diverse. La Storia si aggiorna in fotocopia. L’Islam, forse, ci impressiona di più semplicemente perché le sue prodezze si verificano oggi e a favor di camera, in presa quasi diretta. Grande scandalo destò la distruzione dei due Buddha di Bamiyan (2001) ad opera dei talebani afghani guidati dal mullah Omar, un personaggio che pure ha solleticato la fantasia di qualche occidentale fuori dagli schemi, ma alla fine era quel che era. Non ebbe nemmeno il coraggio di ammettere la propria furia iconoclasta. Si rifugiò in una scusa acrobatica asserendo che alcuni occidentali si erano proposti di far restaurare, a proprie spese, le due statue ferite dalle piogge ma non avevano fatto cenno a possibili donazioni per i bambini afghani che morivano di fame. E quindi il mullah, in pieno raptus di “benaltrismo”, le aveva distrutte. Fuffa. E codardia. Storie simili sono quelle della biblioteca universitaria di Mosul (10mila fra volumi e manoscritti in cenere nel 2014) e dei nove mausolei distrutti in Mali nel 2012. Per il quali, però, la Corte di Giustizia Internazionale dell’Aia ha emesso, nel 2016, la prima storica condanna per crimini contro il patrimonio culturale mondiale: nove anni di prigione ad Ahmad al-Mahdi, membro di Ansar Dine, poco nota milizia jihadista salafita. Per fortuna nessuno si diede invece la briga di ascoltare Ibrahim al Kindi, un illustre predicatore del Kwait, che nel 2018 lanciò una fatwa contro il patrimonio culturale egizio, piramidi e sfinge compresi, ritenuto un simbolo di apostastia.

L’arte e, in generale il bene culturale, in quanto sempiterna testimonianza dell’identità di un popolo o di una tradizione, è la prima vittima dell’intolleranza. Come la verità è la prima della guerra. Verità e cultura, sacrificate sull’altare della violenza cieca. Della furia degli iconoclasti, della brama dei conquistatori. Vale il caso del Partenone di Atene: danneggiato dagli Eruli, chiuso da Teodosio, trasformato in una chiesa cristiana nel VI secolo, convertito in moschea dagli Ottomani nel 1456, ferito a morte dalle palle di cannone dei veneziani. E, infine, come se l’oltraggio non bastasse, depredato dagli inglesi. Per aver sconfitto la Francia i sudditi di Sua Maestà si guadagnarono presso il sultano un specie di decreto, un “firmano”, della cui copia originale si sono però perse le tracce, che li autorizzava a spogliare il Partenone. Thomas Bruce, conte di Elgin, fece razzia dei fregi. E quel documento che non si trova è ancora la scusa accampata dal British Museum per trattenerli oltremanica. Un po’ come Napoleone che decise di spogliare l’Italia (“che deve all’arte la maggior parte della sua fortuna”) per abbellire “il regno della libertà” (sic), cioè la sua Francia rivoluzionaria capovoltasi in impero. L’Occidente ha sempre un asso nella manica per salvarsi la coscienza e giustificare se stesso. Una specie di versione a ciclo continuo del mullah Omar con qualche momento di resipiscenza come quando i nazisti, razziatori proverbiali, salvarono i tesori dell’Abbazia di Montecassino maldestramente bombardata dalla civiltà dell’hamburger.

Vale allora come oggi. Con la differenza che siamo noi stessi, in questo tempo evoluto, ad abbattere le nostre statue e ad imbrattare le nostre tele. Il “dissenso”, a favor di sistema e di telecamera, è un attacco continuo all’arte e all’identità del popoli. È una deriva che ha tanti nomi: woke, cancel culture, auto-razzismo.  La costante è la distruzione del passato, l’idea che la libertà si conquisti recidendo le radici: non quelle degli altri, come faceva Napoleone, ma le proprie. Un caso unico nella storia. Conquistare l’assoluto, nel senso etimologico di ab-solutus, di “sciolto da”. Da cosa? Da tutto, ovviamente. L’eterno presente con la sua morale immanente, senza avi né eredi. Sempre in marcia. Con le barbe lunghe e le spranghe nelle mani.

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