il commento

Flotte ombra e mari chiusi, la guerra torna nel bacino del nostro Mediterraneo

Gaetano Quagliariello

La guerra tra Russia e Ucraina non si è fermata nemmeno a Natale. Tra i tanti episodi che da ultimo l’hanno caratterizzata, ce n’è uno che ci riguarda da vicino perché è avvenuto nel «cortile di casa nostra»

La guerra tra Russia e Ucraina non si è fermata nemmeno a Natale. Tra i tanti episodi che da ultimo l’hanno caratterizzata, ce n’è uno che ci riguarda da vicino perché è avvenuto nel «cortile di casa nostra». Nei giorni scorsi, per la prima volta dall’inizio del conflitto, Kiev ha rivendicato di aver colpito nel Mediterraneo una petroliera riconducibile alla cosiddetta flotta ombra della Russia.

Questa è formata da scafi spesso vetusti, battenti bandiere di comodo, che il Cremlino utilizza per aggirare le sanzioni. La NATO e i Paesi alleati hanno rafforzato la sorveglianza su queste rotte, soprattutto nel Baltico, dove le minacce ibride sono ormai quotidiane. Pecunia nervus belli: ostacolare questi traffici significa colpire una delle arterie che alimentano le entrate energetiche della Russia e, con esse, l’ossigeno che dà fiato alla sua economia di guerra.

Il mare nella storia delle guerre è stato un teatro spesso decisivo. Lo si potrebbe dimostrare spingendoci tanto a ritroso. Ma pur limitandoci alla storia contemporanea, varrà ricordare come la Grande Guerra cambiò in modo decisivo dopo che la Lusitania venne silurata da un sottomarino tedesco e, di conseguenza, gli americani si decisero a intervenire. Nel secondo conflitto mondiale poi, un ruolo non minore ebbero la Battaglia dell’Atlantico, Pearl Harbor e la lotta sui mari per il controllo del Pacifico. Questi scontri epocali, però, hanno riguardato gli Oceani: il «grande largo». Oggi, invece, la guerra torna a lambire il Mediterraneo. Il tratto di mare tra Grecia e Libia, in particolare, sta assumendo sempre più i tratti di una retrovia strategica: lontano dalle trincee del Donbas, ma tutt’altro che estraneo alla sanguinosa guerra d’invasione che infiamma l’Europa orientale.

Esso entra nel gioco, in primo luogo, perché ha a che fare con la proiezione di Mosca nel Mediterraneo dalla Siria alla Libia fino al Sahel: una delle cartine di tornasole più evidenti del ritorno alle vecchie sfere di influenza. Testimonia, inoltre, come nel mondo di oggi, ancor più che in passato, le economie restano interconnesse anche in presenza di conflitti. E le sanzioni, anche quando non vengono aggirate dagli Stati, non hanno la forza di fermare i flussi. Al più li limitano e li rendono più opachi, trasformandoli in terreno di scontro politico e militare.

Sta accadendo nel Mare Nostrum come nel Mar dei Caraibi, dove gli Stati Uniti sequestrano navi venezuelane utilizzate al fine di ovviare alle sanzioni sul greggio, rafforzando al contempo la presenza navale nella regione.

La globalizzazione che rallenta, frammentandosi e ricomponendosi attorno agli interessi strategici degli Stati, non annulla le logiche del mercato in quanto le merci, seppur di contrabbando, continuano a circolare.

Anche per questo, la definizione di «deglobalizzazione relativa» è quella che meglio esprime questo tempo di nuove insicurezze e nuovi pericoli che non vanno sottovalutati.

Colpire una petroliera in un mare chiuso è un’operazione militare ad alto rischio strategico e ambientale. Basta poco per trasformarla in scintilla di un conflitto maggiore; ancor meno per causare un disastro ecologico. Il Mediterraneo, che fino a poco fa credevamo pacifico e vocato allo sviluppo, torna ad essere conteso e, per questo, si trasforma in uno spazio nel quale diventa indispensabile investire sulla sicurezza marittima ed energetica. Il problema – è facile intuirlo – ci riguarda da vicino, anche se non può essere affrontato in ordine sparso dai singoli Stati. Serve una responsabilità condivisa, in particolare dei Paesi dell’Europa meridionale. Senza una presenza coordinata e una vigilanza comune, il Mediterraneo può trasformarsi in terra di nessuno. E se così fosse, il danno sarebbe di tutti ma i primi a pagarne il prezzo saremmo noi: anche questa, in fondo, è «deglobalizzazione relativa».

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