L'analisi

Nervi saldi e lungimiranza: così l’Italia potrà giocare un ruolo per Gaza

Francesco Giorgino

Pesano le condizioni disumane con le quali sono stati trattati gli ostaggi israeliani fin dal giorno dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023

Lo confesso. Vedere donne e bambini palestinesi camminare mano nella mano nelle strade della Striscia, direzione Gaza City, è una carezza al cuore. Strade che fino a qualche giorno fa erano un campo di battaglia tra i più cruenti della storia recente diventano il viatico per la costruzione di un futuro diverso. Pesano le condizioni disumane con le quali sono stati trattati gli ostaggi israeliani fin dal giorno dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023. Pesano i tanti (i troppi) morti di questi due anni di guerra, considerando sia gli israeliani sia i palestinesi. Sono ancora molte le incognite nella gestione degli step attuativi dell’accordo raggiunto. Nonostante ciò, si può avviare finalmente un cambio di rotta. Sapere, oltretutto, che le Nazioni Unite stanno completando le operazioni preliminari per la consegna degli aiuti a Gaza fa fare a tutti un sospiro di sollievo, specie considerando gli aspetti umanitari di questa tragica vicenda. Ci sono 170 mila tonnellate di beni di prima necessità pronti a raggiungere la Striscia dalla Giordania e dall’Egitto.

Il Presidente degli Stati Uniti, assistito dall’efficacissimo Steve Witkoff, ha giocato bene le sue carte. Con grande meticolosità ha fatto capire ad Hamas e ad Israele quale sarebbe stato il prezzo da pagare qualora entrambe le parti non avessero accettato il piano di pace. Trump ha dimostrato grandi capacità diplomatiche, nonostante il suo modus operandi non sempre gli conferisca la giusta credibilità a livello internazionale e nonostante la sua rappresentazione a livello mediatico sia spesso molto severa. Talvolta, anche contro le evidenze empiriche. Non si sottovaluti il fatto che molti analisti geopolitici sottolineano come l’imprevedibilità del numero uno della Casa Bianca rappresenti più un elemento di forza che di debolezza, visto che i suoi interlocutori sono obbligati a mettere in conto che possa accadere anche lo scenario peggiore per loro. Ciò detto, non è un dettaglio di poco conto il fatto che ieri Trump abbia ricevuto la telefonata di Zelensky, sia per complimentarsi per l’esito della trattativa in Medioriente, sia per chiedergli analogo impegno nell’ottica di porre fine una volta per tutte al conflitto tra Russia e Ucraina.

C’è attesa per quello che Trump dirà domani alla Knesset, il Parlamento israeliano, prima di partire alla volta dell’Egitto per la firma del cessate il fuoco a Gaza. Una cerimonia alla quale sarà presente anche Giorgia Meloni. È un risultato di non poco conto per il nostro governo e per tutto il nostro Paese. Governo che dimostra di avere voce in capitolo nella definizione dei principali e più delicati dossier internazionali, a maggior ragione in seguito all’indebolimento strutturale del principio del multilateralismo. È opportuno ricordare, infatti, che, nonostante le accuse di genocidio che le sono state rivolte dalla sinistra più radicale, la premier ha sempre mantenuto i nervi saldi, scegliendo la strada del silenzio e puntando al consolidamento del rapporto con Trump. Una strategia vincente quella della Meloni giocata sul filo della pragmaticità, della razionalità e non certo della emotività. Categoria quest’ultima che, almeno in politica estera, non solo non premia, ma che spesso genera disarmonie e squilibri difficili da gestire.

L’Italia, che da sempre punta alla soluzione definitiva, ovvero quella dei «due popoli e due Stati», non si è allineata ai molti leader internazionali che hanno frettolosamente riconosciuto lo stato di Palestina nonostante al potere ci fosse Hamas. Ha compreso, altresì, con non poca lungimiranza, che attaccare Netanyahu non avrebbe portato a nulla, se non ad un ulteriore peggioramento della situazione. La Meloni, in particolare, ha creduto fin dal primo momento al piano di pace elaborato dagli Usa, anche quando l’intesa sembrava lontana. Ha tenuto la barra dritta sulla condanna di Hamas, senza se e senza ma. Ha dialogato con Gerusalemme, ma parlando fin da subito di mancanza di proporzionalità nella reazione decisa da Netanyahu. Ha realizzato un primato, quello dell’invio di aiuti umanitari alla popolazione palestinese. Nel contempo, ha gestito con grande lucidità la pressione che una parte dei sindacati confederali e quasi tutta l’opposizione parlamentare (oltre che molti media italiani) esercitavano sul governo sia con le azioni dimostrative poste in essere dalla componente italiana della Flotilla, sia con le mobilitazioni di piazza, alcune delle quali sfociate in disordini e scontri. Mobilitazioni sfruttate da alcuni leader politici di centrosinistra per finalità elettorali, ma senza alcun risultato.

Da un lato il Presidente del Consiglio può affermare di essersi collocata dalla parte giusta della cronaca (e molto probabilmente anche della storia, se tutto dovesse filare liscio), operando con intelligenza e comprendendo fino in fondo i rischi e i pericoli della situazione. Dall’altro ha agito in modo tale che l’Italia ora possa prender parte alla ricostruzione delle zone più martoriate dalla guerra in Medioriente.

In relazione a quest’ultimo tema, sono due gli aspetti da sottolineare: quelli più squisitamente militari e quelli socio-economici. Quanto ai primi, non si trascuri il fatto che sarà una task force internazionale a garantire la sicurezza (una volta completati il disarmo di Hamas e il ritiro israeliano) e a sorvegliare l’intera zona, offrendo protezione ai civili, addestrando le forze di polizia ed agevolando la transizione politica. L’Italia si è dichiarata disponibile a dare il proprio contributo alle operazioni di peacekeeping e alle iniziative di stabilizzazione più urgenti. D’altro canto, il nostro Paese può contare su esperienze pregresse maturate proprio nel teatro mediorientale: in passato i nostri militari sono stati, infatti, osservatori speciali di Hebron in Cisgiordania, città dove hanno potuto contribuire alla formazione delle forze dell’ordine palestinesi. Quanto agli aspetti socio-economici, annotiamo che, stando alla stima effettuata dalla Banca Mondiale, sarà necessaria la cifra di 53 miliardi per ricostruire Gaza e Cisgiordania. L’investimento più grande dovrà essere riservato inevitabilmente alle infrastrutture. A Gaza, infatti, la quasi totalità degli ospedali non c’è più. Sono cadute o sono inagibili quasi tutte le abitazioni e le strade. Il nostro Paese opererà insieme agli altri big player in campo per l’attuazione del piano di pace, come per esempio l’Egitto (che confina con la Striscia di Gaza), il Qatar, la Turchia e gli Emirati Arabi.

In conclusione di quest’analisi, si ricordi anche che la partita dell’accettazione e dell’integrazione di Israele da parte degli Stati del Golfo è una delle questioni più complesse da risolvere a livello geopolitico. Del resto, gli attacchi di Hamas ad Israele sono stati sferrati proprio con l’esplicito intento di bloccare l’ingresso dell’Arabia Saudita negli accordi di Abramo. Questo importante evento diplomatico fu cancellato, infatti, in seguito agli attacchi ad Israele da parte dell’organizzazione terroristica islamica. Il percorso per la normalità è ancora lungo, ma un passo alla volta si possono cambiare molte cose. L’importante è continuare a credere nella diplomazia.

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