La riflessione
Da Panama a Suez la crisi dei canali affossa il commercio globale
Nemmeno nelle più pessimistiche previsioni sull’andamento del commercio mondiale era possibile immaginare un inizio di decennio peggiore di questo
Nemmeno nelle più pessimistiche previsioni sull’andamento del commercio mondiale era possibile immaginare un inizio di decennio peggiore di questo. Prima, tra 2020 e 2021, la pandemia ha paralizzato le economie mondiali poi, dal febbraio 2022, la guerra in Ucraina ha assestato un altro duro colpo, con riflessi a scala globale. Con lo scoppio della guerra tra Israele ed Hamas gli analisti contavano sulla dimensione ridotta del conflitto, a meno che… a meno che le tensioni non finissero per riflettersi sulla navigazione e il commercio petrolifero che transita per il mare di Suez.
Invece, non solo ciò è quello che è accaduto, ma contemporaneamente si sta verificando una situazione impensabile nell’altro collo di bottiglia del commercio mondiale, il canale di Panama. Insomma, una tempesta perfetta sta mettendo in crisi l’intero sistema della globalizzazione. Ma andiamo con ordine.
Dopo quella che doveva essere la stagione delle piogge, il canale di Panama sta attraversando una fase di siccità mai vista prima. Il 7 gennaio scorso il canale ha raggiunto uno dei minimi storici di profondità: circa 1,8 metri al di sotto della norma, con ceppi d’albero che emergono sopra la linea di galleggiamento. Ciò ha naturalmente ridotto il numero di transiti, con numeri che ricordano quando, nel 1989, Panama venne invasa dagli Stati Uniti.
Si sta considerando la creazione di un lago artificiale per pompare l’acqua nel canale e la semina di nuvole per aumentare le precipitazioni nell’area, soluzioni cioè molto impegnative e non a breve termine. La speranza è, piuttosto, che El Niño, cioè il riscaldamento periodico delle acque oceaniche, attenui i suoi effetti e consenta il ritorno delle piogge.
La siccità del Centro-America e del canale si trasforma, naturalmente in aumento dei costi di nolo e di trasporto, tanto che molti armatori hanno dovuto scegliere la lunga e costosa alternativa del canale di Suez, che non a caso nel novembre scorso aveva aumentato i passaggi del 4,3%, se non addirittura la circumnavigazione delle Americhe attraverso lo stretto di Magellano.
Da alcune settimane anche l’altra grande arteria transoceanica del commercio marittimo mondiale, il canale di Suez, ha visto diminuire i suoi traffici. Il canale gestisce il 12% del traffico merci globale e il 30% del traffico di container globale per un valore annuale di circa un trilione di dollari. La sua porta meridionale d’ingresso è lo stretto di Bab el-Mandeb che immette nel mar Rosso. Dalle coste di questa strozzatura, da qualche settimana i ribelli sciiti Houthi dello Yemen, in appoggio alla coalizione Hamas-Iran-Hezbollah libanesi, hanno iniziato a bombardare i grandi cargo mercantili internazionali.
Assieme all’endemica presenza dei pirati al largo delle coste della Somalia, ciò sta determinando ritardi nelle consegne, diminuzione dei container e cargo disponibili, aumento delle tariffe di spedizione e dei premi assicurativi. Maersk e diverse altre compagnie hanno annunciato di voler dirottare le navi intorno al capo di Buona Speranza, cioè per una rotta che aggiunge 3.200 miglia e nove giorni di viaggio mentre Hapag-Lloyd introdurrà un servizio navetta via Gedda in Arabia Saudita. Nella prima settimana di gennaio 2024 il World Container Index, l’indice utilizzato per monitorare il costo mondiale del trasporto di container, è aumentato del 61%, raggiungendo livelli quasi doppi rispetto alle tariffe medie del 2019, prima della pandemia.
Siccome attraverso il canale non transitano solo container ma anche quantità rilevanti di grano e di prodotti petroliferi (80 milioni di tonnellate di grano all’anno, 7 milioni di barili di greggio al giorno), il trasferimento dei maggiori costi di trasporto sui consumatori finali è questione di qualche giorno.
L’intervento militare di USA e Regno Unito contro i ribelli Houthi delle ultime ore va inquadrato in questo sfondo: tutte le tariffe mercantili mondiali sono al rialzo e questo corre il rischio di riaccendere l’inflazione a livello globale, proprio quando si stavano smaltendo gli effetti nocivi della pandemia. Non solo: a rischio è la cosiddetta «supply chain», la catena mondiale di approvvigionamento di materie prime e semilavorati, dalla quale dipende ormai l’industria manifatturiera globale, con riflessi negativi per le economie basate sulla trasformazione, come ad esempio l’Europa. Gridi d’allarme sono giunti, ad esempio, in questi giorni da Milano, per le prospettive dell’industria della moda.
Sebbene la crisi sia globale, potrebbe infatti essere nuovamente l’Europa, che non dispone di fonti di energia proprie e di materie prime, a risentire di più di tale situazione. Oltretutto, in una situazione nella quale l’economia tedesca è già in rallentamento e la guerra russo-ucraina sui suoi confini non dà segni di possibile pacificazione.
Insomma, il rischio geopolitico e il cambiamento climatico stanno facendo arretrare le rotte di navigazione disponibili alla situazione di oltre un secolo fa, ma se la tempesta perfetta è mondiale, chi rischia di pagarne il prezzo maggiore siamo noi.