L'analisi

Draghi l’europeo, più che una suggestione per il dopo Ursula

Pino Pisicchio

Nel 2024 saranno vent’anni senza un italiano alla guida della Commissione. L’ultimo fu Romano Prodi

Ogni volta che interviene Mario Draghi nel dibattito pubblico, i media del mondo occidentale - un po’ meno quelli italiani- gli riservano le attenzioni che in genere vengono concesse ai capi di Stato e non ad un «quasi privato cittadino» quale è oggi l’ex Presidente del Consiglio italiano. Questo racconta molto del grande patrimonio reputazionale dell’uomo, lo stesso che lo condusse al vertice del governo in un momento difficile e che rese possibile un ritorno dell’Italia tra i protagonisti europei nel biennio di durata del suo gabinetto. Quel patrimonio, peraltro, fa di lui un leader naturale in un tempo di vacche magrissime quanto a qualità dei reggitori dei destini collettivi nel panorama mondiale.

Del resto la transizione dall’area finanziaria ed economica (mai vissuta, però, soltanto come esercizio di tecnicalità, ma interpretata con grande attenzione ai temi sociali) a quella della politica è ormai compiuta e dunque ogni suo intervento ha un intrinseco valore politico.

Molto politico, infatti, è stato il contenuto dell’intervista rilasciata a Martin Wolf, editorialista del «Financial Times», nella cornice di un importante meeting promosso dalla prestigiosa testata, parlando certo di economia ma anche di visioni sul futuro dell’Europa.

C’è un passaggio-chiave dell’intervista che, per la nettezza con cui viene espresso si propone come manifesto politico in grado di impegnare l’azione di coloro i quali credono davvero che l’Europa possa avere ancora un avvenire. Dice Draghi che di fronte ai cambiamenti radicali in atto sullo scacchiere mondiale, di fronte alla nuova distribuzione dei poteri e delle sfere d’influenza, di fronte all’equilibrio instabile come connotato permanente, di fronte alle guerre vicine, ai flussi migratori imponenti, alla travolgente e incontrollabile avanzata delle tecnologie della comunicazione, alla crisi climatica, l’Europa deve farsi soggetto politico per non soccombere. O meglio: per non sopravvivere soltanto come«“mercato unico». Il di più rispetto a ciò che ascoltiamo, spesso come giaculatoria rituale sulla «necessità del dover fare» da parte di un’Europa da tempo relegata ad un ruolo di comprimaria nello scenario globale, è proprio in quella espressione che Draghi ha usato e che, di fatto, definisce la condizione attuale delle istituzioni e della politica dell’UE: solo un mercato unico. Di cui, però, gli attori della politica europea potrebbero accontentarsi accomodandosi in una confort zone di sovranità ed interessi nazionali che hanno rinunciato a proiettarsi nella più alta dimensione unitaria.

Ma questa è miopia pericolosa: la polarizzazione della geopolitica globale è oggi peggiore di quella dell’età della Guerra Fredda. In un mondo diviso e conflittuale manca il ruolo del mediatore che potrebbe essere svolto dall’Europa. Di più: in un tavolo planetario in cui dovranno necessariamente codificarsi i nuovi equilibri globali, perché ai tempi di Yalta, ormai lontana più di tre generazioni, la Cina e l’India non c’erano, perché il crollo del muro di Berlino è datato 1989 e la Russia non è più ormai l’Unione Sovietica, ma una potenza locale che invade Stati sovrani con sogni allucinatori d’impero zarista, l’Europa non c’è. Come non c’è nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Come non c’è anche nell’UE stesso, paradossalmente, dove sulle questioni che contano i trattati impongono la regola dell’unanimità, che poi si traduce nel diritto di veto dell’unico che si mette di traverso (e abbiamo avuto troppi esempi).

Draghi ha chiara visione istituzionale, oltre che economica e sociale, ed oggi anche un ruolo formale nella Commissione Europea: Ursula von der Leyen gli ha conferito l’incarico di curare un rapporto sulle prossime sfide competitive per l’Europa. Anche questo conferma la reputazione dell’Italiano.

Ma vorremmo immaginare anche di più: che il senso di Draghi per la politica e la sua passione sincera per l’Europa potessero combinarsi con esiti concludenti nelle istituzioni dell’Unione. Del resto nel 2024 saranno vent’anni che al ruolo di Presidente della commissione non c’è un rappresentante italiano. L’ultimo fu Prodi: sarebbe pure ora.

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