L'analisi

Lattanzi e il coraggio di raccontare le cose che non si raccontano

Lisa Ginzburg

La storia di un’ossessione generata da un forte trauma e il coraggio, tutto al femminile, di aprirsi attraverso le pagine di un romanzo. «Le cose che non si raccontano» (Einaudi) di Antonella Lattanzi

La storia di un’ossessione generata da un forte trauma e il coraggio, tutto al femminile, di aprirsi attraverso le pagine di un romanzo. «Le cose che non si raccontano» (Einaudi) di Antonella Lattanzi - domani la presentazione al teatro Kismet di Bari alle 21 - è un viaggio impetuoso tra le pieghe di un desiderio di maternità sfociato nel calvario della procreazione assistita.

Ci sono letture che lasciano echi forti dentro di noi, echi che prescindono dai libri stessi, per come arrivano a parlarci di molto di più, della intera vita. Da lettrice per professione quale sono, non mi succede così spesso, o almeno, meno di frequente di quanto vorrei, di custodire memorie ed echi lasciati in me da ciò che leggo. Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi fa e farà parte invece di quel genere di letture. Un libro cui continuo a pensare, a distanza di giorni. Quel che personalmente mi ha toccato di più della vicenda che Antonella Lattanzi ha deciso di condividere (e che in maniera magistrale riesce a ripercorrere e rievocare) è il suo essere racconto di un’ossessione, e delle modificazioni che un processo ossessivo genera in noi.

La sua è una storia di grande amore, di grande dolore, di perdita e di allarme, di morte e di vita, di corpo e di anima. Una storia che affronta tanti temi: la ricerca della maternità quando si è una scrittrice e una lavoratrice e per il proprio lavoro si nutre infinito amore, temendo di perdere tempo ed energie consacrandosi a un nuovo ruolo di madre. Di come cambiano i rapporti umani, e molte altre cose intorno a te, quando sei una donna non più giovanissima che per anni ha procrastinato di avere un figlio (scegliendo di abortire, anche) e invece all’improvviso potere avere quel figlio diventa una priorità vitale, il fuoco in cui tutte le energie vanno a bruciare, consumarsi, e tutto è sperare, desiderare, attendere, perseverare e volere. Di quale stress e calvario possa essere un percorso di procreazione assistita, anche, non da ultimo, dal punto di vista dei rapporti con il personale medico e paramedico. Ma anche, moltissimo, quella narrata da Antonella Lattanzi è la storia di un’ossessione generata da un forte trauma.

Già il titolo evoca il corto circuito che può scattare nella mente: la rimozione istintiva, assurda, pazzesca ma in quel frangente così pazzescamente necessaria di quando una tragedia che incombe su di noi non possiamo tollerarla.

Se non racconto una cosa bruttissima che mi è successa, quella cosa non esisterà, non sarà avvenuta. Se la mia mente si ritrae da una verità, se la occulta, prima ancora che al mondo, a sé stessa, quella verità non sarà vera. I traumi, e il non detto che ogni profondo trauma genera e porta con sé, hanno a che fare con questo tipo di processo mentale, questa auto-protezione che il cervello attua verso sé stesso, intanto, a livello psicologico, facendosi ancora più male. Se non le dici e non le racconti, le cose non avvengono. Se i dolori li attraversi solo tu in segreto (e nemmeno tu del tutto, dal momento che stai rimuovendo), quei dolori saranno meno laceranti.

La mente si aggrappa a una cieca, dissennata certezza del genere e se ne fa travolgere, e intanto il trauma scava il suo tarlo. «No, non può essere vero, non è a me che sta succedendo» continui a dirti, nel mentre affondi più in giù, in zone del cervello sempre più celate, la realtà, il suo insostenibile portato di dolore. Perché quella realtà è troppo brutta, fa male in modo insostenibile, e accettarla e guardarla non puoi, figurarsi dirla. Chi abbia vissuto uno shock terribile sa in che modo maniacale e folle possa lavorare il nostro cervello. C’è un altro libro che ho letto e mai dimenticato che parla di questo, o almeno di qualcosa di vicino, ed è L’anno del pensiero magico di Joan Didion. Anche quelle pagine raccontano un’ossessione mentale, e l’estrema difficoltà di venire a patti con il reale quando si sta soffrendo troppo. Scrivere di cose del genere è massima fatica per chi lo fa, un dono per chi legge. Un dono difficile, incandescente; ma anche, un dono liberatorio, catartico, potente. Non guarisce da nulla raccontare, e invece è benefico e istruttivo, per chi legge, seguire qualcuno mentre passo a passo abbandona la follia di una rimozione mentre con limpido coraggio ed esattezza accoglie il passato, tutto quanto è stato, e piange ma anche recupera il bandolo sino ad allora smarrito. E lo fa scrivendo, raccontando. Condivide con gli altri, parla, ricorda, descrive, dà un nome alle cose. Può dirsi: «Questo è stato, questo ho vissuto». E da quel dirsi la verità, la vita rinasce, gonfia di tutto il dolore che è stato, ma rinasce. Questo anche fa, raccontare le cose che non si raccontano come con limpido coraggio ha fatto Antonella Lattanzi.

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