Il commento

Quando il terremoto torna a porre l’eterna domanda: «Dov’è il buon Dio?»

Leo Lestingi

Non sappiamo perché permetta il male ma sappiamo che, grazie a Lui, non è l’ultima parola

Il recente terremoto in Turchia e Siria, con le sue tragiche conseguenze, ha suscitato in noi il clamoroso interrogativo di sempre: «Ma dov’è Dio? Perché permette questi eventi? Come possiamo credere ancora alla sua provvidenza, davanti a tanta brutalità della natura?». Forse formuliamo queste domande in una forma soltanto rituale e retorica, quasi che tutti ci arrendiamo in partenza al fatto che interrogativi così non abbiano alcuna risposta plausibile.

Ma al fondo di esse sta la convinzione che Dio non dovrebbe esporre le sue creature alla possibile distruzione. Si tratta di una convinzione condivisa da quasi tutte le religioni, che pensano la divinità come realtà benevola, quella di cui gli esseri umani hanno bisogno. L’interrogativo attraversa i secoli, ma ha assunto colorazioni accentuate soprattutto nel secolo scorso durante la Shoah, ad esempio, e torna ogni qual volta un evento drammatico come un terremoto, una pandemia, una guerra sanguinosa irrompono nella nostra tranquilla quotidianità.

Ha spopolato su molti testi, anche di teologia, la drammatica scena descritta da Elie Wiesel ne La notte: la domanda «Dov’è il buon Dio? Dov’è?», che l’autore sente risuonare dietro di sé mentre impiccano un ragazzo nel campo di sterminio, trova nella mente di Wiesel la risposta: «È appeso lì, a quella forca!». La risposta è stata letta, sulla scorta della riflessione rabbinica sulla Shekhinah (intorno, cioè, alla presenza «fisica» di Dio), come indicazione di una solidarietà profonda di Dio con l’ingiusta sofferenza. In verità, appare maggiormente plausibile leggerla come dichiarazione che ormai Dio è morto: un Dio che permette un così tragico oltraggio all’umanità dell’uomo non merita d’essere riconosciuto, deve essere cancellato dalla mente e dal cuore delle persone umane, come è successo allo stesso Wiesel e a diversi ebrei scampati al lager.

Ma la domanda serpeggia ancora oggi. La risposta frettolosa di alcuni cattolici, anche rivestititi di autorità, che vede negli eventi tragici del terremoto un «castigo», non appartiene alla fede cristiana, anche se deriva da un’incauta lettura provvidenzialistica della storia veicolata anche dalla tradizione cristiana. Ma se non possiamo accettare queste risposte, dobbiamo comunque tentare di capire perché Dio non sia intervenuto o non intervenga a bloccare una minaccia che ha provocato e provoca sofferenze infinite a tante persone.

La tradizione teologica, ma anche filosofica, con Jacques Maritain, ha formulato l’espressione secondo la quale «Dio permette il male». Il verbo «permette» denota il desiderio di non considerare Dio estraneo a ciò che sta accadendo e, nel contempo, di non attribuire a lui l’origine del male. Questo secondo aspetto si rivela rispettoso dell’identità divina, contro ogni tentazione manichea e in sintonia col messaggio biblico, che ci presenta Dio come fonte di vita, il Padre che si prende cura dei suoi figli.
Il primo aspetto, l’idea, cioè, che Dio non debba essere estraneo alle vicende umane, suggerisce, però, che Dio non interviene positivamente, ma lascia che il male dilaghi. E proprio qui sorge la domanda: «Perché?». La domanda urge: non si può ritenere che rinunci a intervenire, come ha scritto Hans Jonas in un suo lucido ma problematico testo, perché creando ha rinunciato alla sua onnipotenza, lasciando tutto lo spazio dell’iniziativa all’uomo. Infatti, qualora si dovesse giungere a questa conclusione - come alle volte si pensa, fondandosi sulla debolezza di Dio manifestata nella croce di Cristo - ci si dovrebbe domandare se l’umanità abbia ancora qualche speranza di vincere il male: un Dio debole avrebbe bisogno Lui stesso di essere salvato, come alcuni rabbini - e con loro anche Etty Hillesum, Simone Weil o il nostro Sergio Quinzio, che ritengono che Dio abbia bisogno di essere «aiutato» (con la nostra invocazione, la nostra preghiera, la nostra attesa) - sono giunti a pensare. Ma si tratta di un paradosso.

In questo caso, non ci dovremmo neppure aspettare che Dio impedisca il male, e quindi anche la nostra domanda apparirebbe priva di senso. Ma se è potente, almeno nella sua onnipotenza d’amore, perché tace e non agisce? Nella tradizione teologica, fondandosi su alcuni testi biblici, si è ritenuto di trovare la ragione nella «pedagogia» di Dio: non intervenendo a impedire il male, Dio ci metterebbe alla prova per verificare se si sia in grado di riconoscere solo Lui come Signore.

La prova - che assume anche il volto della tentazione - avrebbe lo scopo sia di verifica che di crescita. Ma questa risposta non appare, tuttavia, persuasiva, anche solo per il fatto che dalla prova si potrebbe uscire perdenti, anziché vincitori. Non a caso, nel «Padre Nostro», si chiede di non essere esposti alla tentazione, perché, al di là delle polemiche suscitate dalla nuova traduzione italiana della preghiera, nella tentazione si potrebbe cadere: e qui istruttiva al riguardo è la traduzione spagnola: «No nos dejes caer en la tentación»; «non lasciare che cadiamo nella tentazione».

Pensare che Dio si ritragga dall’intervenire quando i suoi figli sono minacciati dal male per «provarli», porta a domandarsi ulteriormente: «Ma ha calcolato bene i possibili esiti?».

Dunque, non pare pertanto soddisfacente la risposta, come non appare tale anche quella avanzata da Dietrich Bonhoeffer, quando scriveva che Dio si ritrarrebbe, come la croce di Cristo starebbe a mostrare, per lasciare l’intera responsabilità agli esseri umani. Viene, così, da domandarsi a cosa serva, alla fine, Dio: il passo verso l’ateismo è breve, e anche la nostra domanda risulta priva di senso; se Dio lascia che le vicende umane si svolgano senza che Lui intervenga, vuol dire che nulla - sia il bene che il male che l’umanità può sperimentare - ha relazione con Lui, e dunque anche chiedersi perché permetta il male non trova alcun aggancio nella sua identità.

Si dovrà , allora, rinunciare a trovare una risposta? Forse è la posizione più saggia, benché possa apparire deludente. D’altra parte, la pretesa di trovare una ragione plausibile non rischia di rinchiudere Dio entro parametri che non rispettano la sua imperscrutabile identità? Rileggere magari il percorso di Giobbe potrebbe essere istruttivo, perché libera dalla presunzione di chiedere ragione a Dio del suo comportamento.

Ma riferirsi a Giobbe fa restare sulla soglia del mistero, che si rivela ancora più grande quando si rilegge la vicenda di Gesù: in essa, però, si svela, in maniera imprevista, che Dio si immerge nelle vicende dolorose degli umani per aprirli alla speranza di una vittoria sul male. Non sappiamo perché Dio permetta il male; sappiamo, però, che, grazie a Lui, questo non è l’ultima parola sull’esistenza umana.

Dio, insomma, non c’entra col terremoto, ma, per i credenti, c’entra con la risposta solidale da dare a ogni altro disastro e sciagura che siano provocati dalla natura o dall’uomo. E qui ci sovviene e ci conforta un passo biblico, come racconta il Primo Libro dei Re: «Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento; dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu un mormorio di un vento leggero: e il Signore era lì…».

Privacy Policy Cookie Policy