Il punto

Ma Alighieri è incomparabile con i nostri canoni: non confondiamo l’identità culturale con quella più strettamente politica di oggi

Pasquale Guaragnella

Intanto, ove volessimo considerare i grandi autori della nostra tradizione letteraria, essi restano del tutto estranei ad ogni strumentalizzazione politica, di qualsiasi colore o schieramento

Caro Direttore, apprendo, dalle prime pagine della «Gazzetta del Mezzogiorno» e di altri quotidiani, di un singolare passaggio all’interno di un discorso pronunciato dal Ministro Gennaro Sangiuliano in occasione di un incontro organizzato a Milano dal partito di «Fratelli d’Italia». Definirei singolare il passaggio del Ministro dal momento che egli ha affermato il ruolo di Dante quale genitore di una visione del mondo improntata ai valori della Destra (non intendo bene, se nel riferimento alla tradizione della Destra, ci si riferisca alla Destra storica post-risorgimentale, dovendo, per decenza, escludere quella fascista). Vorrei qui segnalare alla Tua cortese attenzione che nei confronti del Ministro Sangiuliano – come del resto sarebbe doveroso da parte di ogni cittadino – non coltivo alcuna posizione politica pregiudiziale: ed anzi ho accolto con favore e consenso quanto egli ha dichiarato recentemente a difesa della lingua italiana e di un suo uso diffuso e corretto, non subalterno, cioè, all’uso di parole e locuzioni, quando non sia strettamente necessario, della lingua imperante nella globalizzazione.

Naturalmente, a proposito della opportuna dichiarazione del Ministro sulla lingua italiana, mi son posto un quesito: ovvero il quesito - dando per scontato che ogni lingua intersechi nella sua storia più culture - se non sia da riconoscere che la stessa lingua italiana è l’esito di una intensa storia di relazioni, di rapporti anche conflittuali tra popoli, di incroci di costumi assai diversi tra loro. Per accogliere questo vero non ci sarebbe bisogno di rivolgerci a linguisti di professione: loro potrebbero impartirci lezioni interessanti, e anche suggestive, sulla storia dell’italiano, lezioni che varrebbero a rimuovere, in ogni caso, eventuali nostri schemi mentali su concezioni di purezza della nostra lingua. Svolgo questa osservazione, forse pedantesca, solo per richiamare una questione che interseca l’uso dell’italiano, ma non si esaurisce di certo in una prospettiva linguistica: è la dibattuta questione della nostra identità, della nostra identità nazionale, questione che pure nel corso di queste settimane sembra tornare, ora esplicitamente ora tacitamente, sulla bocca o nel pensiero di non pochi rappresentanti politici. Si tratta della identità culturale a partire da Dante: autore al quale, lo scorso anno, abbiamo dedicato tante occasioni serie di incontri, ma talvolta celebrazioni fastidiosamente retoriche. Per chi ha insegnato, e per non pochi anni, Letteratura italiana all’Università - ed è stato pure Segretario nazionale di una Associazione di Italianisti - figurarsi se la questione della difesa e della diffusione di un patrimonio linguistico-letterario senza pari non sia stato e non sia ancora un impegno in cui credere fortemente.

Pensi, caro Direttore, che quando, alcuni anni or sono, in ragione di decisivi provvedimenti legislativi furono abolite le Facoltà universitarie e il nuovo assetto istituzionale prevedeva solo l’esistenza di Dipartimenti, accadde che per mere ragioni numerico-quantitative (potrei dire aziendalistiche?), nelle Università italiane furono soppressi i Dipartimenti di Italianistica, istituzionalmente preposti allo studio e alla diffusione della Letteratura e della cultura italiana, anche all’estero. In quel tempo, ad opera dell’Adi (l’Associazione degli Italianisti cui accennavo) si tentò, ma senza successo, di interloquire con le forze parlamentari: si riteneva che soprattutto le forze di Destra potessero mostrare una sensibilità peculiare affinché, dentro le macro-aree umanistiche, i Dipartimenti di Italianistica continuassero a svolgere il loro ruolo istituzionale.

Non andò così: ma, come diceva il filosofo, si rammenta qui una vicenda senza risentimento alcuno. Senonché, quello che ho appena proposto a tema non contraddice un profondo convincimento che non può essere solo personale, foss’anche il convincimento di un docente di Letteratura Italiana: si tratta, in verità, di intendersi sul concetto di identità culturale, ovvero su qualcosa di assai diverso dal concetto di identità nella storia della politica. Infatti, in merito alle questioni riguardanti le identità culturali, chi potrebbe negare che esse sono sempre plurali, esito di incontri, di conflitti, e spesso di dialoghi e di contaminazioni? Ripeto: sono vicende assai diverse da quelle della politica, a cui deve andare il rispetto di ogni cittadino quando essa sia segnata da valori veri e non compromessa da vicende solo di potere.

Cade qui un punto decisivo: rappresentato dalla straordinaria galleria degli autori della nostra tradizione letteraria nonché da un passato storico che, ovviamente, andrebbe studiato, conosciuto, interpretato. Dante è il massimo rappresentante di una cultura, come quella medievale, i cui valori sono assai diversi da quelli della civiltà moderna: in questo senso – sottolineo: nell’ambito di una storia dei valori – l’opera di Dante è del tutto incomparabile non solo con la nostra attualità, bensì con i valori della civiltà moderna, fondati sui principi – a cominciare da quello della tolleranza e del dialogo tra diversi - della cultura illuministica e post-illuministica. Si potrebbe qui obiettare: ma allora autori come Dante e opere come la Commedia, così rivisitati, starebbero a marcire in un polveroso Museo? Non è proprio così. Intanto, ove volessimo considerare i grandi autori della nostra tradizione letteraria, essi restano del tutto estranei ad ogni strumentalizzazione politica, di qualsiasi colore o schieramento. V’è di più. Intorno alla questione dei valori la dilucidazione più congrua è in una osservazione di Italo Calvino, a giudizio del quale i Classici della letteratura italiana - Dante in primis - come i Classici di ogni grande letteratura, producono una sorta di rumore di fondo, assai diverso ed estraneo a quello della nostra cronaca: è il rumore di tutto ciò che attiene intensamente all’umano, a ciò che è universale, del tutto alieno da qualsiasi posizionamento politico.

Verrebbe fatto di avanzare un’ultima considerazione, ma nella chiave di un pianissimo. In questa età neo-barocca, nella quale tutti noi siamo immersi, può accadere che quasi ogni giorno ci si trovi di fronte a una ostensione di immagini e di parole: come ci fosse una permanente tensione dei rappresentanti della politica, ma altresì delle professioni, a produrre linguaggi sorprendenti, a produrre, per così dire, linguaggi della meraviglia .Tutto questo avviene nel segno di dichiarazioni forti, talvolta sconcertanti, le quali – si può rilevare con agio – sono immediatamente seguite da un pulviscolo di voci alternative e di polemiche. Senonché la cultura del Barocco storico, non già di quello attuale, riusciva – accanto a quella della ostentazione – a realizzare pure un’altra scelta: della parola discreta, prudente, spesso della parola congrua e acuminata. Quella cultura sapeva, quando lo riteneva opportuno, soprattutto esprimere l’opzione del silenzio.

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