L'analisi

Ma la crisi Dem fa male anche al sistema

Gaetano Quagliariello

Nell’ultimo decennio, nel panorama della politica italiana, il Pd ha rappresentato un riferimento coerente per quel che concerne la forma partito, le regole interne e la selezione della classe dirigente. C'è da chiedersi: è ancora così?

Nell’ultimo decennio, nel panorama della politica italiana, il Pd ha rappresentato un riferimento coerente per quel che concerne la forma partito, le regole interne e la selezione della classe dirigente. Anche per queste sue peculiari caratteristiche, esso è riuscito per tanto tempo a governare pur non avendo mai vinto le elezioni.

Essere un riferimento non significa essere un modello. Ce lo ha spiegato Max Weber - uno dei maggiori sociologi del secolo scorso - con la categoria dell’idealtipo: una costruzione ideale utile per orientarsi anche a quanti non si riconoscono in essa. Fuor di metafora: i caratteri incarnati dal Partito Democratico sono persino serviti ai suoi avversari nel tentativo di costruire qualcosa di differente.

C’è da chiedersi: è ancora così? Questi riferimenti resistono alla crisi attuale?

Un partito può prevedere al suo interno delle correnti ma non può esaurirsi in esse; deve saper difendere un proprio insediamento sociale; deve essere in grado di esprimere una politica che non coincida con la mera pratica di governo; deve avere una strategia per le alleanze. Tutte caratteristiche che il Pd possedeva e che ora sembra averle definitivamente smarrite.

Il cambiamento di paradigma è ancora più evidente per quel che riguarda le regole interne. Pochi giorni fa al Senato è stata incardinata una proposta di legge di un esponente del Pd, Andrea Giorgis, per la regolamentazione del partito politico così come previsto dall’articolo 49 della Costituzione. La lodevole iniziativa appare, se non una beffa, un paradosso. Essa giunge, infatti, proprio nel momento in cui in casa Pd viene smarrita qualsiasi certezza sulle regole e l’iscritto si viene a trovare di fronte a cambiamenti improvvisi e repentini determinati esclusivamente dal gioco delle oligarchie.

Infine, la selezione della classe dirigente: anche su questo aspetto il Pd è stato a lungo un’eccezione perché su tutto il territorio nazionale ha selezionato i propri candidati - in particolare quelli per la guida di città e regioni - tenendo conto delle competenze, del cursus honorum, dell’attitudine al governo. Oggi tutto è più relativo. I buoni amministratori certo non mancano ma i criteri di scelta dipendono, assai più che in passato, dal rapporto tra le correnti.

Il Pd, insomma, non sembra più essere il Pd. E quel che è più grave è l’inconsapevolezza di molti dei suoi dirigenti. I più sembrano affetti da una presunzione che si avvia a divenire fatale. Si comportano come antichi possidenti che non si accorgono di esser decaduti e pensano di poter ancora contare sulle risorse di un tempo.

Fanno del male al loro partito ma anche al sistema politico perché cancellano un riferimento che, per le sue peculiarità, ha fin qui avuto un significato anche per chi non lo ha mai apprezzato e non lo ha mai votato.

Servirebbe un rigurgito di consapevolezza. E, giunti a questo punto, forse il modo migliore per salvaguardare quel che si è stati e quel che si è rappresentato è convincersi della necessità d’iniziare da capo.

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