L'analisi

Ma sulla Giustizia basta trucchi e illusioni ottiche

Sergio Lorusso

Non di rado i governi sono caduti sulla giustizia, questa volta invece è la giustizia a inaugurare l’azione dell’esecutivo. Il decreto-legge varato lunedì dal Consiglio dei ministri accorpa due temi assai lontani tra loro ma entrambi di estremo rilievo.

Da un lato, la cd. «riforma Cartabia», voluta dal precedente Guardasigilli per rendere più efficiente l’esercizio della giurisdizione, riducendone i tempi, e portare a casa i fondi del PNRR, con l’opportuno differimento – in assenza di adeguate norme transitorie, cui pure si sarebbe dovuto pensare stante l’ampia portata dell’intervento normativo – dell’entrata in vigore al 30 dicembre 2022, per consentire agli uffici giudiziari di farsi trovare pronti a gestire le tante novità introdotte. Il termine originario di 15 giorni, un po’ distrattamente concepito, era visibilmente troppo ridotto per una riforma dalle tante ricadute sul piano organizzativo. Se mai si sarebbe potuto pensare a un differimento frazionato, che estrapolasse le norme non immediatamente operative, ma si è preferita la via più semplice. Naturalmente ora occorre attivarsi prontamente, non essendo possibili ulteriori proroghe se non si vogliono perdere irreparabilmente i fondi europei.

Dall’altro, la questione spinosa del cd. «ergastolo ostativo», quella forma di ergastolo pervasivo, introdotta nel nostro ordinamento giusto 30 anni fa all’indomani della strage di Capaci, orientata (essenzialmente) a contrastare la criminalità organizzata e che si traduce nell’impossibilità per il condannato di fruire dei benefici normalmente concessi ai detenuti, tranne che non diventi un collaboratore di giustizia (con una residuale eccezione). Si tratta tecnicamente di una «presunzione legale assoluta di pericolosità sociale», che traccia una linea netta rispetto all’ergastolano «comune» il quale può invece accedere a tutta una serie di benefici previsti dalla legge nell’ottica rieducativa, condensata nell’art. 27 comma 3 Cost., che caratterizza il nostro ordinamento.

Ma come si può parlare di rieducazione e di reinserimento, ci si chiede, rispetto a un condannato - pur se per reati di estrema gravità - se gli si preclude ogni possibilità di risocializzazione (naturalmente da parametrare alle specificità del singolo caso)? E come si può collegare un trattamento più favorevole alla collaborazione, non sempre autentica bensì strumentale al raggiungimento dell’obiettivo? Il tema è scottante perché vede, sul fronte opposto, le esigenze di tutela della sicurezza dello Stato rispetto a fenomeni criminali devastanti e tristemente famosi.

La questione si complica se consideriamo che sul punto sono intervenute sia la Corte costituzionale – sottolineando come la finalità rieducativa della pena debba essere garantita sempre, anche nei confronti di chi ha commesso reati gravissimi, e come sia irragionevole la disparità di trattamento istituita tra condannati alla stessa tipologia di pena (l’ergastolo) - che la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale distingue tra pena perpetua «comprimibile» e «non comprimibile» ritenendo solo la prima in linea con l’art. 3 CEDU.

La Consulta si è espressa in termini molto netti ingiungendo al legislatore, dopo un ennesimo rinvio, di provvedere ed è proprio da questo diktat che nasce il provvedimento - fotocopia sbiadita del disegno di legge approvato dalla Camera nella scorsa legislatura - varato lunedì dal governo allo scopo di disinnescare l’incombente intervento della Corte costituzionale calendarizzato per l’8 novembre.

Da un primo e sommario esame delle norme emerge come ci si discosti non poco dagli input rinvenienti dalla Corte: non solo si irrobustisce sensibilmente il novero dei reati per cui il regime differenziato che esclude i benefici potrà operare, ma dietro un apparente ammorbidimento delle condizioni che legittimano il superamento dell’«ergastolo ostativo» si cela una moltiplicazione di requisiti alternativi di nuovo conio, il cui onere dimostrativo – spesso pressoché impossibile – spetta all’interessato.

Un artificio legislativo, che rimuove le cause della presumibile illegittimità costituzionale per sostituirle con un regime solo in apparenza migliorativo ma, se si vuole, ancora più stridente con gli orientamenti della Consulta e della Corte europea. Unica consolazione, l’eventualità che si intervenga in sede di conversione – come la stessa premier Giorgia Meloni ha detto nel presentare il provvedimento alla stampa – superando incongruenze e criticità e, con esse, le illusioni ottiche normative che producono.

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