La riflessione

In Puglia come altrove le spiagge libere sono all’ultima spiaggia

Raffaele Simone

Il processo di privatizzazione delle spiagge ha generato un fenomeno nuovo, più inquietante e, pare, quasi solo italiano: la gentrificazione dell’ambiente costiero

Pubblichiamo un intervento di Raffaele Simone, nato a Lecce, linguista di reputazione internazionale, membro di più accademie e autore di saggi di vasta risonanza, editi in Italia e all’estero. Il prossimo, «Divertimento con rovine», uscirà in autunno presso l’editore Solferino ed esamina il problema del divertimento (e del turismo) come fonte di degradazione del pianeta

Quando si tenta di cambiare qualcosa che non va, spuntano sempre titolari di ignoti diritti e privilegi a rivendicare lo statu quo. Vengono alla luce corporazioni e gilde di cui nessuno immaginava l’esistenza. Nei giorni scorsi, per protestare contro il diffondersi dei servizi taxi della multinazionale Uber, si è materializzata la rude corporazione dei tassisti, che si è mostrata capace di paralizzare le città in tutt’Italia. L’estate che ora avanza ne ha portata alla luce un’altra, anche questa invisibile e potentissima: i «balneari», cioè i titolari degli stabilimenti che recintano gran parte delle coste italiane trasformando in business milionario la più naturale tra le risorse naturali.

Il proposito del governo di rivedere, in applicazione delle condizioni del PNRR, i termini delle concessioni delle spiagge, a partire dalle tariffe (irrisorie rispetto agli incassi corrispondenti), ha infatti suscitato una rivolta che ha indotto l’esecutivo a fare marcia indietro e finanche a proporre, nel caso poco probabile di una nuova più stringente normativa, indennizzi per le perdite di redditività.

Chi poteva immaginare che quelli che chiamavamo affettuosamente «bagnini» fossero una potenza politica? Invece sì: hanno anche rappresentanti in Parlamento, e ben più d’uno. Grandezza dell’Italia! Da una rapida indagine su Google, non risulta infatti che in altri paesi d’Europa i gestori di stabilimenti abbiano emissari in Parlamento. Del resto, non poteva essere diversamente. L’oggetto del desiderio è grosso e succulento.

Sui tremilatrecento chilometri di spiagge italiane insistono infatti ben 12.166 concessioni per stabilimenti e 1.838 per circoli sportivi e ricreativi. Queste strutture coprono (cioè sbarrano) il 42% delle coste praticabili (sabbiose e di scoglio), con punte prossime al settanta per cento in Liguria, Marche, Campania e Emilia-Romagna. In altri termini, circa la metà delle coste italiane è accessibile solo pagando un ingresso, e non di poco prezzo. Non è detto che i chilometri restanti siano tutti utilizzabili, dato che le nostre coste sono ricche di parti rocciose, scogliose e boscose. Il numero delle concessioni e dei chilometri controllati cresce di anno in anno, stando ai dati che LegAmbiente pubblica nel suo prezioso “Rapporto Spiagge” annuale (lo si trova in rete digitando Rapporto Spiagge 2021), che supplisce alla mancanza di informazioni ufficiali.

In Italia non c’è una norma nazionale che stabilisca la percentuale massima di costa da dare in concessione. Qualche regione ha però fissato delle proporzioni. Tra queste è la Puglia, che con la Legge Regionale 17/2006 (la “Legge Minervini”) ha stabilito che il 60% delle spiagge deve essere libero, contro il 40% che può esser dato in concessione. Questi sono però meri numeri su un foglio di carta. Pochi comuni hanno applicato la norma, pochissimi hanno controllato le proporzioni. Se si va a vedere come stanno le cose, come capita a me in questi giorni in Salento, si scopre che lunghi tratti di costa sono presidiati da stabilimenti, senza interruzione. Quando la spiaggia non c’è, la si crea con acrobatiche pedane di legno, grandi o piccole. Le cosiddette spiagge libere sono francobolli miserelli, spogli o spelacchiati, spesso coperti di erbacce, bottiglie rotte, plastiche e siringhe, e soprattutto del tutto privi di servizi comunali.

Rispetto all’anno scorso ho trovato anche molto aumentata la densità di ombrelli e lettini, nella simpatica finzione che la pandemia sia ormai roba del passato. In alcuni stabilimenti, la prima fila degli ombrelli è a un metro dal bordo del mare, il che fa sì che i non paganti possano passeggiare sulla riva solo in punta di piedi. E ho trovato anche, naturalmente, aumentati i prezzi, suppongo a compensazione delle perdite degli anni scorsi. All’inizio di questo luglio, ho pagato quaranta euro a Porto Cesareo (in seconda fila; per la prima, ottanta centimetri più avanti, ce ne vogliono quarantacinque) in uno stabilimento di alta densità, che pretende cinquanta centesimi aggiuntivi per una doccia fredda e un euro per quella calda. Ne ho spesi altri trentacinque (stavolta però con doccia inclusa) in un primo stabilimento di Roca li Posti e ventotto in un altro lì accanto, appena meno premium. In agosto queste tariffe aumenteranno, ma non ho voluto chiedere di quanto.

Nell’istruttiva pagina 38 del “Rapporto Spiagge” sopra citato si trova un prospetto dei prezzi giornalieri 2021 degli stabilimenti più ricercati. Si va dai mille euro (sì: mille) di una struttura a Marina di Pietrasanta agli 85 di una più modesta spiaggia di Vico Equense (Napoli), passando per i 120 di una struttura a Marina di Fasano. Se si vuole avere un’idea del rapporto tra spesa e incassi, il “Rapporto Spiagge” racconta che l’anno scorso 21.581 delle 29.689 strutture censite dal Ministero pagavano un canone annuo inferiore a 362,90 euro, pari a una decina di ingressi negli stabilimenti più a buon mercato.

Il processo di privatizzazione delle spiagge ha generato un fenomeno nuovo, più inquietante e, pare, quasi solo italiano: la gentrificazione dell’ambiente costiero, cioè la sistemazione delle spiagge mediante strutture simili a quelle dell’edilizia e dell’arredamento, simultaneo all’allontanamento della gente normale.

Negli stabilimenti non si trovano più solo ombrelloni e lettini: ci sono ottomane, tendaggi, divani e poltrone, isole protette da aiole e paratie, televisori, casseforti, cabanas (una sorta di casette di materiale leggero), micropiscine private... Insomma, le spiagge sono sfruttate come suolo. I rave parties notturni e le feste sulla sabbia sono ormai cosa normale. Si sono aggiunti nel frattempo le celebrazioni in spiaggia di matrimoni e wedding parties (si dice così) e perfino i concerti di massa. Come quelli di un maturo rapper dal cappello da pirata, che sta girando l’Italia servendosi di una formula di rara astuzia: sebbene il suo pubblico lasci malconcio e pesto un bene pubblico delicato come la sabbia, lui vende “poesie da spiaggia” e sbandiera cause green.

Privacy Policy Cookie Policy