IL COMMENTO

L’assedio di Sarajevo 30 anni fa e allora pensavamo che la guerra fosse archiviata

Diego Zandel

Dopo tutto questo credevamo che l'orrore nel vecchio continente fosse solo un ricordo

Fino a poco meno di due mesi fa pensavamo di aver vissuto l’ultima guerra nel cuore dell’Europa negli anni Novanta, con il conflitto interetnico che avrebbe portato alla dissoluzione della Jugoslavia. Invece siamo precipitati nel baratro di un’altra guerra, forse più devastante di quella, come se i morti ammazzati, tra cui donne, vecchi e bambini, i massacri, gli stupri, le fossi comuni, le colonne di profughi, i mutilati, le devastazioni procurate dagli obici, dalle mine, dai cacciabombardieri, fin dai cecchini, gli orrori tutti, non fossero serviti da lezione.

Basterebbe ricordare l’assedio di Sarajevo iniziato proprio trent’anni fa, il 5 aprile del 1992 e terminato ben 1425 giorni dopo, il 29 febbraio del 1996, e che, con quello di Vukovar e il massacro di Srebrenica, ma anche con i 78 giorni di bombardamenti aerei di Belgrado del 1999, rappresentano i momenti salienti di una guerra che, a pochi chilometri da noi, sull’altra sponda dell’Adriatico, si vivevano ovunque e ogni giorno, e che non avremmo più voluto vivere né vedere.  Con questo spirito, nella convinzione di riportarlo alla memoria come il residuo di un passato che non si sarebbe più ripetuto grazie a un’Europa Unita nella quale altri Stati del vecchio continente - come già era stato per quelli che si erano combattuti durante le due guerre mondiali - ambivano a entrare, anche noi scrittori, giornalisti, autori cinematografici, registi, ci preparavamo a tirar fuori libri, film, articoli, speciali, che ricordavano il trentennale di quell’ultima guerra europea come un passato che non si sarebbe più ripetuto.

I tempi lunghi nella preparazione di documentari che celebrino, per tempo, tutto ciò, ricordando le pagine buie da cui siamo usciti, e quelli non meno lunghi della produzione editoriale, che necessita di programmazione nelle uscite, per la distribuzione, ha fatto sì che si lavorasse a riguardo molto prima dell’aggressione russa all’Ucraina. Già sono in libreria alcuni libri significativi come Maledetta Sarajevo edito da Neri Pozza e scritto da due giornalisti, Francesco Battistini e Marzio G.Mian, che hanno vissuto da corrispondenti nell’inferno dell’assedio di Sarajevo, o come Balcania edito dalle Edizioni Biblioteca dell’immagine, scritto da Toni Capuozzo, inviato di prima linea sul fronte della ex Jugoslavia, un libro che, ironia della sorte, ha per sottotitolo L’ultima guerra europea. Personalmente, mi sono trovato a lavorare in questi mesi al soggetto del documentario Hotel Sarajevo, nato da un’idea di Andrea Di Consoli e prodotto da Clipper Media, Cinecitta con Rai Cinema, per la regia di Barbara Cupisti, che sarà trasmesso prossimamente in Tv. Ci ho, ci abbiamo tutti, lavorato nella convinzione che aveva senso parlarne oggi anche alla luce di quanto di tremendo era accaduto in quei 1425 giorni a Sarajevo nella speranza che nulla di analogo potesse ancora accadere, a cominciare dallo sgomento in cui gli abitanti della città si ritrovarono la mattina del 5 aprile del 1992 occupata dai check-point dell’esercito serbo-bosniaco e dalle truppe paramilitari di Radovan Karadžić. Una situazione che spinse Alija Izetbegović a sciogliere il parlamento, situato proprio davanti all’hotel Holiday Inn, sul cui tetto si erano appostati, intanto, alcuni cecchini che, sparando contro un primo corteo di protesta, avevano ucciso una giovane musulmana, Suada Dilberović, dando inizio a una pratica che dall’Holiday Inn si sarebbe trasferito su altri edifici dello stesso viale Radomir Putnik, che d’allora avrebbe preso il nome di viale dei cecchini. Gente che, armata di fucili di precisione Dragunov, dai tetti prendeva di mira e uccideva chiunque, anche bambini, entrasse nel cerchio del loro mirino. Questo, mentre il quartiere di Grbavica veniva occupato dalle truppe serbe, dal quale controllavano anche le vie che portavano all’aeroporto, con conseguenze durissime per il resto della popolazione, in particolare le donne, vittime di violenze bestiali. Tutto ciò mentre il resto della città veniva presa nella morsa delle artiglierie piazzate sulle colline intorno a Sarajevo, al comando del generale Ratko Mladić, che sarebbe salito alla ribalta anche per il massacro di Srebrenica.

Ben presto, la città sarebbe stata isolata, senza elettricità ed acqua, con i cittadini che, oltre a morire per le bombe, presero a morire di freddo e di fame. Questo, almeno, finché non fu costruito da gruppi di volontari un tunnel sotterraneo che permise, seppur solo in parte, di far giungere alla popolazione aiuti umanitari, ma anche di mettersi in salvo, per quel che era possibile, considerando che, parallelamente, le operazioni militari e sanguinarie si spostarono verso Mostar, Travnik, Maglaj, Gradačac, Goradžde. Tutti luoghi in cui imperversavano, accanto all’esercito di Milošević, le cosiddette Tigri del «comandante» Arkan, al secolo Željko Ražnatović. No, dopo tutto questo, pensavamo che la guerra in Europa sarebbe stata, davvero, archiviata per sempre.

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