L'analisi

Foggia e non solo, malavita nei Comuni legame da recidere

Mimmo Mazza

Da sinistra, Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano dal 1972 al 1984 ripeteva che «nel mondo esisteranno pure diverse questioni morali, ma questa non è certo una scusa per accettare che in Italia gli amministratori pubblici rubino»

Da sinistra, Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano dal 1972 al 1984 ripeteva che «nel mondo esisteranno pure diverse questioni morali, ma questa non è certo una scusa per accettare che in Italia gli amministratori pubblici rubino». Mentre da destra Giorgio Almirante, numero 1 del Movimento sociale italiano tra il 1969 ed il 1987, affermava che «un ladro va messo in galera. Se il ladro è uno dei nostri deve avere l’ergastolo».

Convergenze parallele generate da una politica che - purtroppo - non c'è più, da ideologie messe al bando non si sa bene per quale motivo, da schemi comportamentali mandati in soffitta nel nome di un qualunquismo buono per le urla nei talk show e sui social network, dai cori «onestà, onestà» fatti da chi in nome dell’antipolitica si è ritrovato al Governo prima con la Lega e poi con Pd, Italia Viva e Forza Italia, è sceso dal tram e si è incollato sui sedili in pelle delle auto ministeriali.

Trent'anni fa l'inchiesta «Mani Pulite» contribuì in maniera decisa sicuramente a far luce su alcuni reati compiuti contro la pubblica amministrazione ma anche a decapitare una intera classe politica, tanto da far diventare segretari e dirigenti di primo piano dei principali partiti funzionari e militanti che ai congressi occupavano i posti oltre la sesta-settima fila, rigorosamente senza diritto di parola.

Da allora, senza generalizzare ma questo è, all'interno delle pubbliche amministrazioni poco è cambiato. Si rubava, e si ruba, magari con strumenti un pochino più sofisticati ricalcati sopra le norme degli appalti via via cambiate. Si infiltravano le associazioni a delinquere, anche di stampo mafioso, e ancora si infiltrano, anzi lo fanno non solo in Sicilia, Calabria e in Campania ma pure nel ricco Nord.

Una situazione inquietante alla quale la Puglia e la Basilicata forniscono un apporto non indifferente.

È di ieri la decisione con la quale i giudici della prima sezione civile del Tribunale di Foggia hanno dichiarato l'incandidabilità di Franco Landella, ex sindaco leghista del capoluogo dauno, Leonardo Iaccarino, ex presidente del Consiglio comunale, e altri sei consiglieri comunali di maggioranza. La dichiarazione di incandidabilità era stata avanzata dal Ministero dell'Interno dopo lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose avvenuto ad agosto scorso.

A Foggia non si voterà prima dell'anno prossimo ma alle elezioni non potrà prendere parte chi ha guidato la città prima del suo commissariamento.

Ancora una volta, insomma, è la magistratura a intervenire, a invadere il campo, a fare selezione, a distribuire le pagelle dei buoni e dei cattivi, supplendo a quel popolo, nel nome del quale la giustizia viene amministrata, che quei politici aveva scelto ed eletto.

Il territorio foggiano è attraversato da fenomeni mafiosi tutt'altro che irrilevanti. Le pressioni sulle attività imprenditoriali, esercitate velatamente o a suon di bombe come quasi non si usa più da nessuna parte d'Italia, i morti ammazzati, i condizionamenti delle pubbliche amministrazioni, rappresentano le spie di una presenza criminale alla quale lo Stato sta cercando di rispondere aumentando la presenza di uomini e mezzi dopo l'apertura di una sede della Direzione Investigativa Antimafia, stringendo i rapporti con la Direzione distrettuale antimafia competente, quella di Bari. Ma è evidente che tutti gli sforzi sono destinati a risultare vani se ad essere infiltrati, o meglio condizionati, dalle associazioni a delinquere risultano essere il Comune o qualche ente pubblico, ovvero proprio le istituzioni che dovrebbero garantire la sana e terza gestione del denaro pubblico, avere la legalità come stella polare.

Lo scioglimento dei Consigli comunali per sospetto condizionamento mafioso, con annessa incandidabilità per gli amministratori, arriva spesso molto prima delle sentenze dei paralleli procedimenti giudiziari, e viene adottato con un iter nel quale quanto emerso nelle indagini preliminari costituisce quasi un anticipo di verdetto.

Insomma, non è proprio un giusto processo, all'insegna del garantismo, quello che porta grigi commissari di nomina prefettizia o ministeriale, ad indossare la fascia tricolore altrimenti riservata agli eletti dal popolo, ma non è detto che si tratti in assoluto di un male. D'altronde non si tratta di libertà personale, sulla quale un accertamento e un dubbio in più sono sempre preferibili a uno in meno, ma della partecipazione alla vita pubblica e alla amministrazione dei soldi di tutti: temi sui quali la garanzia per tutti noi può venire prima delle carriere politiche di chi è sospettato di essersi fatto condizionare dalla mafia o di aver fatto addirittura carriera proprio grazie alla mafia.

Mentre prima fare politica era un’esperienza guardata con rispetto e attenzione, oggi è motivo di scherno, di sospetto e, quasi sempre, di indagine. Succede sempre più spesso che le persone normali la evitino, facendoci correre il rischio che ad occuparsi della cosa pubblica siano persone che diversamente non avrebbero molto altro da fare. Un rischio che non possiamo più permetterci di correre.

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