L'intervista

La ricetta di Gregucci «Riforme irrinunciabili». Parla l'ex assistente tecnico del ct Mancini

Lorenzo D’Alò

«È l’ora più buia per il calcio italiano. La Serie A torni subito a 18 squadre»

Fiorentina, Manchester City, Inter, Zenit San Pietroburgo, Italia: sono le squadre in cui la filosofia di Roberto Mancini e le conoscenze di Angelo Adamo Gregucci hanno fatto sintesi, convivendo nello stesso staff. Gregucci, tarantino di San Giorgio Jonico, 183 partite in serie A e una carriera da allenatore ricca di esperienze, ha i titoli per rispondere.

Ha una logica la sconfitta degli azzurri con la Macedonia?

«No, non ce l’ha. Se restiamo all’analisi del risultato, che ha dell’assurdo, non si può non rilevare come sia maturata contro un avversario che la Fifa colloca alla posizione n. 67 del ranking mondiale. Vedendo giocare l’Italia, ho percepito la mancanza di serenità. Ho visto alcune facce e ha capito che non sarebbe stato facile. Non c’era spensieratezza. In quegli sguardi preoccupati si poteva leggere la paura di non farcela. Di tutte le paure, la peggiore. Perché ti toglie ogni certezza».

Quanto tempo ci vorrà per comprendere esattamente ciò che è successo e, soprattutto, come sia potuto accadere?

«A soccorrerci nella disamina è la storia. Perché c’è già stata un’Italia che si arena, dopo aver fatto il miracolo. Ovvero, che trionfa quando non dovrebbe, perché mancherebbero i presupposti. Per esempio in Spagna nel 1982: campioni del mondo a dispetto di una critica che a quella Nazionale non dava alcun credito. Per esempio nel 2006 in Germania: campioni del mondo mentre infuriava calciopoli, con la Federazione commissariata. E per esempio, infine, nel 2021, appena otto mesi fa: l’Italia di Mancini che sale sul tetto d'Europa, irridendo il pronostico col suo carico di idee fresche. Ecco, il nostro problema è sempre stato il dopo. Nella gestione della vittoria siamo carenti. Non ne approfittiamo per avviare riforme profonde. Anziché pianificare, dando continuità tecnica e organizzativa all’impresa, ci facciamo travolgere da un ingiustificato senso di appagamento. Ci sentiamo improvvisamente arrivati. Ma dove? E così le lancette della crescita tornano indietro».

Un temporale d’insidie che non ha prodotto la goccia di un gol. Non c’è più tensione realizzativa nell’Italia di Mancini. Può essere questa la chiave del fallimento?

«Non ricordo parate provvidenziali del portiere macedone. Anche nelle occasioni più propizie agli Azzurri è mancata la necessaria determinazione. Abbiamo avuto il controllo della partita, e ci mancherebbe altro, ma no del nostro destino. Scelte sbagliate in rifinitura e tentativi di finalizzare un po’ avventati: dal gol, in effetti, siamo rimasti sempre distanti».

Dopo la vittoria dell’Europeo di otto mesi fa, nella notte indimenticabile di Wembley, si parlò di rinascimento italiano.

«Quello era solo l’auspicio di molti. Ma chi sa di calcio, parlava piuttosto di miracolo. L’Italia ha vinto l’Europeo, spiazzando un po’ tutti, perché Mancini ha avuto il coraggio di introdurre concetti diversi. Idee che non appartengono alla nostra cultura calcistica. Ha vinto demolendo molti luoghi comuni, facendo a meno di tutto l’armamentario tattico che ha accompagnato i trionfi precedenti».

Ma come è stato possibile, in soli otto mesi, disperdere quel deposito di novità? Perché la leggerezza si è trasformata in affanno, il coraggio ha ceduto alla paura e la bellezza si è sporcata di fatica vana?

«È la storia che nel ripetersi, stavolta, ha avuto una fortissima accelerazione. Il processo involutivo è stato rapido. Un drastico cambio di scena».

Quella con la Macedonia è la peggiore disfatta in 112 anni di storia Azzurra?

«È sicuramente il momento più basso. Abbiamo ricevuto uno schiaffo che si è fatto sentire. Pesano le conseguenze. Torneremo a giocare la fase finale di un Mondiale dopo 12 anni, se ci va bene. Così rischiano di saltare intere generazioni. È un colpo tremendo per l’intero sistema».

Il nostro calcio non è più riconoscibile. Nel tentativo di affrancarsi dal suo passato, si ritrova sospeso in un tempo in cui non è chiaro nulla. Esiste ancora un via italiana, un’idea che ci identifichi?

«Mancini una visione ce l’ha. Un’idea di fondo che sembrava potesse attecchire. Ma evidentemente c’è bisogno di quello che continuiamo a rinviare: le riforme».

Glerean, l’allenatore che tentò di rivoluzionare il calcio italiano senza riuscirci, ha parlato su questo giornale del fallimento delle scuole-calcio. Ha detto che non funzionano perché è superato ciò che s’insegna. Ha chiarito che bisognerebbe allenare i genitori, facendo ritrovare ai loro figli il gusto di divertirsi.

«Ezio dice verità incontrovertibili. Ai miei tempi, i papà facevano i papà e basta, marcando una presenza discreta. Oggi la loro invadenza è dannosa. Sono ultrà, direttori tecnici, procuratori. Fanno danni perché sono convinti di avere un fuoriclasse in casa. Così come fanno danni quegli allenatori che per formarsi usano i settori giovanili. È sbagliato. Perché è soltanto alla loro carriera che pensano mentre addestrano i ragazzini».

L’eliminazione della Nazionale e l’uscita precoce dei club italiani dalla Champions League sono la conseguenza di un sistema in crisi o solo dell’inesorabile impoverimento tecnico della nostra serie A?

«Penso che la crisi sia più vasta e profonda e dunque di sistema. Non s’investe abbastanza nei settori giovanili. Ci sono club professionistici che ne farebbero volentieri a meno, togliendo quella spesa dal bilancio. La possibilità di avere una seconda squadra, idea che altrove funziona e porta benefici, da noi è quasi ignorata. Occorre cambiare. Per esempio: la serie A a 18 squadre per recuperare spazi all’attività federale e rendere il campionato maggiormente competitivo. Per esempio una Lega Pro più snella: 60 squadre sono un’enormità. Bisogna eliminare il minutaggio legato all’utilizzo di giovani che poi in serie A non arriveranno mai. Giochi, chi merita. Nicolato, selezionatore dell’Under 21, qualche giorno fa, ha fornito numeri inequivocabili: solo lo 0,43 per cento delle squadre di serie A è rappresentato da under 21. E di questo 0,43 %, solo l’80% riesce a ritagliarsi scampoli di partita. Il serbatoio è vuoto. Nicolato è costretto a pescare in C».

Che cosa dovrebbe fare adesso Mancini?

«Dovrebbe dimettersi. Dimissioni che, però, dovrebbero essere respinte. A quel punto Mancini potrebbe finalmente imporre le sue condizioni, recuperando margini di operatività. Ha avuto una manciata di giorni per preparare la sfida con la Macedonia. È inconcepibile».

La richiamasse al suo fianco, ci andrebbe?

«Può succedere, ma non accadrà. Con Roberto ci siamo presi e lasciati non so quante volte. Ma c’è stima e affetto reciproco. Faccio il tifo per lui»

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