ANDRIA - «È un’altra pugnalata. Volevamo giustizia, ma neanche quella abbiamo avuto». Le parole sono poche, la voce rotta dal dolore. Nicola Inchingolo, 67 anni, lavorava in una farmacia di Andria. Sua figlia Iolanda, 24 anni, quel maledetto 12 luglio era sul treno diretto a Bari. Bella, giovane, con un curriculum brillante. Dopo la sentenza di giovedì sera, quella sofferenza mai del tutto sopita si è riacutizzata.
Signor Inchingolo, come ha appreso la notizia del verdetto?
«Con il passaparola. Ci hanno avvisato per telefono, siamo sempre rimasti in contatto con le altre famiglie andriesi coinvolte nell’incidente. Poi abbiamo visto i servizi in televisione. Io purtroppo non ho potuto partecipare all’udienza per problemi di salute, ma ho seguito personalmente il processo fino a 15 giorni fa. Anche se non siamo più costituiti in giudizio, poiché abbiamo concluso una transazione con l’assicurazione».
Cosa l’ha spinta a seguire così da vicino la vicenda processuale, pur non essendo più direttamente interessato?
«Volevo rendermi conto fino in fondo di ciò che era successo. Ho seguito sempre tutte le udienze, non ne ho saltata una. Fino a ieri (giovedì, ndr)».
Cosa ha provato quando ha saputo delle assoluzioni?
«In fondo me lo aspettavo, per come sono andate le cose, ma avevo sempre la speranza che la giustizia avrebbe fatto il suo corso. È stato un duro colpo, non solo per me ma anche per tutti gli altri».
Come mai ha scelto di uscire dal processo?
«Gli avvocati della difesa erano molto agguerriti. Siamo andati avanti per due anni, poi il mio legale, Laura Di Pilato, ha iniziato ad avere il sentore che le cose forse non sarebbero andate come ci aspettavamo. E infatti ha avuto ragione. Si sapeva fin dall’inizio che alla fine sarebbe stata data la colpa solo al capotreno e al capostazione. Il fatto che la Regione, dopo quanto accaduto, abbia rinnovato la concessione a Ferrotramviaria ci ha deluso tutti. Ancora oggi, nonostante il doppio binario, nulla è cambiato. Non funziona niente, basta parlare con i ragazzi. Ritardi, treni cancellati. Mio figlio li prende ogni giorno. Anche lui doveva essere su quel treno».
Cosa ricorda di quel giorno?
«I miei ragazzi facevano l’Università a Bari, e andavano sempre in treno. Mio figlio quel giorno doveva fare un esame, ma non si sentiva preparato e così non si presentò. Mia figlia, invece, doveva incontrarsi con una persona. Frequentava il corso di Chimica, aveva la media del 30: era stata scelta insieme con un’altra studentessa per fare un corso al Cern di Ginevra: la convocazione è arrivata un anno dopo la tragedia».
Come ha appreso la notizia dell’incidente?
«Mia moglie era a lavoro, io mi ero pensionato da poco: ci chiamò l’altra figlia perchè aveva saputo la notizia. All’inizio non riuscivamo a sapere nulla: ci presentammo in tutti gli ospedali della zona, per capire se Iolanda fosse ricoverata. Quel pomeriggio doveva incontrarsi con una persona a Bari. Disse a mia moglie “mamma, ci vediamo stasera”. Non l’abbiamo più rivista. C’è tanto rammarico. Non è una questione di soldi, ma di giustizia. Volevamo solo giustizia».