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il grande accusatore
Massimiliano Scagliarini
26 Maggio 2020
Flavio D’Introno non è una vittima, ma l’ufficiale pagatore del «sistema Trani»: quello che per anni potrebbe aver visto alcuni magistrati impegnati nel truccare procedimenti giudiziari in cambio di denaro e regali. È la tesi della Procura di Lecce che ha chiesto il rinvio a giudizio dell’imprenditore coratino, grande accusatore dell’ex gip Michele Nardi e degli ex pm Antonio Savasta e Luigi Scimé, contestando anche a lui - come già a fatto con gli altri - l’associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari.
La notizia della richiesta di rinvio a giudizio è emersa nel corso dell’udienza celebrata il 18 maggio davanti alla Prima sezione penale del Tribunale di Lecce: l’ex gip Michele Nardi (in videoconferenza dal carcere di Melfi) ha infatti raccontato di aver chiesto alla Procura generale di Lecce l’avocazione del procedimento nei confronti di D’Introno. Ad agosto 2018 la Procura di Lecce aveva chiesto il rinvio a giudizio solo per dieci degli undici indagati, escludendo appunto D’Introno. «D’Introno - ha spiegato in udienza il pm Licci - aveva depositato una memoria difensiva estremamente complessa con ulteriori richieste istruttorie.
Per sostenere la sua estraneità all’associazione a delinquere, aveva spiegato di essere vittima di un contesto associativo pre-esistente e non un partecipe dell’associazione. Sotto questo profilo era stato fatto un provvedimento di stralcio motivato». La Procura in questi mesi ha dunque ascoltato altri piccoli imprenditori che - sempre secondo D’Introno - si sarebbero trovati in situazioni simili alla sua: gente cui sarebbero stati chiesti soldi per insabbiare (o per non riaprire) vecchi procedimenti penali. «L’imputato Nardi - ha proseguito il pm Licci - ha presentato istanza di avocazione delle indagini sostenendo che lo stralcio fosse stato effettuato per motivi strumentali. Il procedimento è stato definito con richiesta di rinvio a giudizio: le imputazioni sono rimaste assolutamente identiche rispetto a quelle iniziali». L’istanza di avocazione è dunque stata rigettata mentre la richiesta di rinvio a giudizio per D’Introno è ora sulla scrivania del presidente dell’ufficio Gip, Alcide Maritati. L’imprenditore 46enne di Corato, anche lui in carcere (a Trani, per scontare la condanna definitiva per usura che ha cercato di evitare elargendo oltre due milioni di euro) secondo l’accusa è dunque il corruttore dei giudici.
«Esprimo disappunto per aver appreso della presunta avvenuta richiesta di rinvio a giudizio da un imputato, sebbene ancora magistrato», dice l’avvocato Vera Guelfi, difensore di D’Introno, che formalmente non è ancora a conoscenza del provvedimento. Ma anche allo stesso Nardi la Procura ha negato l’accesso al fascicolo dello stralcio «i cui atti - ha detto il pm Licci - sono sostanzialmente gli stessi della prima fase», più appunto i nuovi accertamenti svolti dai carabinieri di Barletta: i verbali di alcuni piccoli imprenditori che secondo D’Introno sarebbero stati messi in mezzo da Nardi e Savasta. Ma, evidentemente, i loro racconti non sono stati sufficienti a salvare D’Introno dall’accusa più grave.
L’udienza fiume del 18 maggio è stata peraltro dedicata ad ascoltare un altro imprenditore di Corato, Paolo Tarantini, vittima della stangata da 400mila euro che secondo la Procura sarebbe stata orchestrata da Nardi e Savasta. Tarantini (assistito dall’avvocato Beppe Modesti) avrebbe pagato per far chiudere una falsa indagine per evasione fiscale, con D’Introno nella parte del mediatore: non solo avrebbe prestato parte della provvista finanziaria per la mazzetta ma avrebbe anche accompagnato Tarantini ai due appuntamenti per la consegna dei soldi nelle mani delle sorelle dei due giudici. La difesa di Nardi ha però recisamente negato di aver ricevuto i soldi, e Tarantini ha dichiarato di non aver mai avuto contatti diretti con l’ex gip per questa vicenda.
L’imprenditore dei trasporti ha poi raccontato di quando Savasta si presentò da lui in un bar a chiedere un prestito di 60mila euro («Disse di dover portare il figlio in America per un intervento chirurgico, si mise anche a piangere») e di essere stato costretto a consegnare a Nardi - sempre tramite D’Introno - altri 30mila euro (poi diventati 40mila) per chiudere una causa di lavoro già vinta in primo grado.
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