BARI - Nel tardo Pleistocene, oltre centomila anni fa, l’area dei Campi Flegrei registrò una delle eruzioni più potenti della sua storia geologica. La scoperta, a cui ha partecipato l’Università di Bari, è stata pubblicata sulla rivista scientifica «Communications Earth and Environment» di Nature. E proprio ieri la terra è tornata a tremare nella zona della caldera con una scossa che ha registrato una magnitudo 4.4. Una attività che in realtà sta andando avanti da mesi a conferma dell’importanza dello studio e di quanto sia attiva la zona.
Jacopo Natale, ricercatore in Vulcanologia e Processi vulcano-tettonici del Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università di Bari, ci spiega i risultati dello studio «L’eruzione Maddaloni/X-6 si distingue come uno degli eventi più importanti del tardo Pleistocene ai Campi Flegrei» firmato con i ricercatori dell’Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Igag), dell’Università Sapienza di Roma e dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv).
Cosa evidenzia l’articolo pubblicato sulla rivista di Nature?
«Lo studio, guidato da Giada Fernandez dell’Università La Sapienza e di cui sono co-autore, propone per la prima volta una stima quantitativa della grandezza dell’eruzione di 109mila anni fa, prodotta dai Campi Flegrei. Il livello di cenere noto come “X-6” disperso in tutta l’area Mediterranea, è associato ad una grande eruzione esplosiva, i cui depositi sono oggi sepolti al di sotto delle ceneri vulcaniche più recenti, ed è riconosciuta in affioramenti più vicini al vulcano come Maddaloni (Caserta), e più di recente, in un sondaggio ai Ponti Rossi (Napoli). La magnitudo (da non confondere con quella dei terremoti) dell’eruzione di Maddaloni/X-6 è allo stato attuale, seconda sola alla ben nota eruzione dell’Ignimbrite Campana, di 40mila anni fa, che è ad oggi la più grande eruzione vulcanica conosciuta nell’area mediterranea».
Che prospettive di ricerca si aprono dopo i risultati di questo studio?
«Il fatto che questo sistema vulcanico abbia prodotto diverse grandi eruzioni suggerisce che la struttura della caldera, la depressione vulcano-tettonica che si forma durante grandi eruzioni a seguito del rilascio di un ingente volume di magma in superficie, potrebbe essere molto più complessa di quanto ipotizzato finora».
A cosa serve studiare eventi così remoti?
«Ricostruire nella maniera più completa possibile la storia eruttiva di un vulcano permette di caratterizzarne la pericolosità vulcanica e i rischi associati, per cui diventa fondamentale conoscere la ricorrenza degli eventi di varia magnitudo. La ricostruzione della taglia delle eruzioni durante la storia eruttiva di un vulcano e l’evoluzione nel tempo della loro struttura, pone prospettive di ricerca sfidanti. Tematiche a cui il Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali di Bari è molto sensibile e su cui conduce attività di ricerca e didattica con professori, ricercatori e dottorandi».
Lo studio è per così dire sulla notizia, visti i recenti eventi sismici.
«Come noto, l’attività sismica è associata al sollevamento del suolo che dal 2005 ha superato i 130 cm. Come abbiamo osservato più volte, quando il suolo sale più rapidamente, l’attività sismica si intensifica in numero ed energia (magnitudo). Alcuni di questi eventi sono ben percepiti dalla popolazione, ma ricadono per localizzazione e profondità, negli stessi volumi di roccia già coinvolti da sismicità negli ultimi anni».
Si arriverà, secondo lei, a poter predire questi eventi, magari attraverso l’Intelligenza artificiale?
«Una delle frontiere di utilizzo dell’intelligenza artificiale riguarda proprio la capacità di assemblare set di dati, come quelli sismici, di alta qualità e in poco tempo, fornendo uno strumento prezioso per le attività di monitoraggio vulcanico e per la ricerca».