BARI - Ha negato di aver materialmente sparato ai fratelli Rafaschieri, spiegando di essere stato costretto ad accettare di far parte del commando dietro minaccia di ritorsioni e anche perché, dopo essersi rivolto al padre, storico capo clan di Japigia, si sarebbe reso conto che questi non era più in grado di «proteggerlo». È in estrema sintesi il racconto che Giovanni Palermiti, figlio del boss Eugenio, ha fatto ai pm della Dda di Bari sull’agguato mafioso che il 24 settembre 2018 causò, dopo un inseguimento culminato a Carbonara, la morte di Walter Rafaschieri e il ferimento del fratello Alessandro.
Le dichiarazioni di Palermiti sono state depositate nel processo in corso dinanzi alla Corte di Assise di Appello di Bari sull’omicidio Rafaschieri. In primo grado il figlio del boss è stato condannato all’ergastolo. Con lui sono imputati il pluripregiudicato Filippo Mineccia, suo cognato (20 anni in primo grado) e i presunti fiancheggiatori dell’azione di fuoco, coloro cioè che avrebbero fornito ai sicari armi, fatto da vedette, aiutato a cancellare le tracce e a nascondere l’auto usata per l’agguato. Tra loro il collaboratore di giustizia, ex braccio destro del boss Palermiti, Domenico Milella (condannato a 9 anni e 4 mesi), il pregiudicato Michele Ruggieri (17 anni e 8 mesi), Riccardo Campanale (18 anni) e Gianfranco Catalano (9 anni e 5 mesi). La Procura generale, nella requisitoria di ieri, ha chiesto la conferma per tutti tranne Mineccia, per il quale ha chiesto l’ergastolo.
L’agguato si inserisce nella guerra in atto tra i clan Palermiti e Strisciuglio per la gestione dello spaccio a Madonnella. Circa una settimana prima dell’omicidio - è il racconto di Palermiti - Milella avrebbe convocato lui, Mineccia e altri, per pianificare una spedizione punitiva perché Rafaschieri aveva iniziato a spacciare nel quartiere a ridosso delle strade della movida barese, violando l’accordo che c’era con il clan di Japigia.
Palermiti - stando a quello che ha spiegato ai pm - avrebbe voluto starne fuori ma Milella lo avrebbe minacciato, dicendogli: «Tu non ci puoi lasciare da solo a noi, altrimenti tu tieni un problema con me. Non stare a fare u gnorr’, che come frnimu cu’ chidd, poi a’ cumunz’ cu’ vu (ndr. non stare a fingere di non capire, che come finiamo con quelli, poi devo iniziare con vol)». Quel voi - ha spiegato nell’interrogatorio - era riferito a lui e a suo padre, il quale alla richiesta del figlio di intervenire avrebbe risposto: «A chi devo chiamare io? Questi a me mi devono mandare in galera». «Allora io capii - rivela Giovanni Palermiti - che mio padre non era più in grado di proteggermi».
L’imputato ha poi raccontato tutte le fasi dell’agguato, l’appuntamento sul terrazzo di casa di un sodale all’alba del 24 settembre per recuperare «i giubbotti, le pistole, le maschere, passamontagna». Poi l’appostamento in una stradina all’ingresso del quartiere Carbonara e l’inseguimento della moto con a bordo i fratelli Rafaschieri.
«Mentre stava camminando la moto, mio cognato (Mineccia, ndr) uscì la pistola e mi ricordo - spiega Palermiti che dice di essere alla guida dell’auto con il commando armato - sparò un colpo. Si inceppa la pistola; Milella da dietro, perché stava già con il finestrino aperto, spara pure lui». La macchina dei sicari, con le vittime ormai riverse sull’asfalto, fu poi coinvolta in un incidente e per assicurarsi la fuga i killer rapinarono la vettura di un passante. Il racconto di Palermiti prosegue con i dettagli dell’alibi falso (una multa per guida contromano con la complicità dell’allora comandante della Polizia locale di Sammichele).