il virus
Coronavirus: da Santeramo agli Usa per studiare il vaccino
Il professor Alessandro Sette, di origini santermane, dirige la ricerca a San Diego
Santeramo in colle - Coronavirus e vaccino: a che punto siamo? La parola al professor Alessandro Sette, origini santermane e una carriera straordinaria di scienziato di fama internazionale. È figlio dell’avvocato Pietro Sette, classe 1915, che fu presidente dell’Eni.
Alessandro, 60 anni, è settimo nella lista dei «Top Italian Scientists», secondo la graduatoria dell’H-index, l’indicatore usato per misurare la produttività di un ricercatore. È direttore del Dipartimento di ricerca sui vaccini del La Jolla Institute of Immunology (Ljl) a San Diego, in California. È professore dell’Università della California San Diego (Ucsd). Autore di più di 750 diverse pubblicazioni scientifiche, inventore in più di 30 brevetti in biotecnologia. È classificato quinto tra gli scienziati italiani nel settore biomedico. Laureato in Scienze biologiche a Roma nel 1984, recentemente ha concentrato i suoi studi su malattie e patogeni di rilevanza globale, tra cui virus come Dengue, Zika, Ebola, influenza, batteri come tubercolosi e pertosse e infezioni malariche.
Professore, quale aspetto della ricerca sui vaccini sta curando?
«Ho dedicato più di 30 anni di studio alla comprensione della risposta immunitaria, alla misurazione dell’attività immunitaria e allo sviluppo di strategie di intervento contro il cancro, l’autoimmunità, le allergie e le malattie infettive. Il mio approccio consiste nello scoprire con molta pazienza quali sono le molecole o frammenti di virus, batteri o altre sostanze (che in termini tecnici si chiamano epitopi) che il sistema immunitario riconosce. Noi utilizziamo queste conoscenze per misurare e comprendere le risposte immunitarie. Il nostro laboratorio utilizza gli epitopi come “esche” per catturare le cellule immunitarie specifiche per il microbo o il virus, e capire qual è la differenza tra le reazioni immunitarie benefiche rispetto a quelle insufficienti o addirittura dannose (come l’artrite o un attacco di asma allergico). Queste ricerche consentono di comprendere come il corpo combatte con successo l’infezione e, al contrario, di come i patogeni sfuggono al sistema immunitario, portando alla malattia. Questo e’ anche importante per analizzare le risposte indotte dai vaccini, che devono emulare la risposta di successo, e non quella che non protegge dalla malattia».
In quale modo sta lavorando al vaccino anti Covid-19?
«Nel caso del Covid ci stiamo movendo su diversi fronti. Da un lato abbiamo prodotto e pubblicato uno studio bioinformatico, che sulla base dei dati che erano disponibili già prima dell’inizio della epidemia (basati sull’epidemia Sars del 2003) ci ha permesso di predire alcuni probabili bersagli che il sistema immunitario può colpire nel caso del Covid. Poi ci siamo mossi per ricreare in provetta, con antigeni sintetici e donazioni di sangue di donatori non infetti, cosa succede quando un individuo incontra il virus per la prima volta. In un’altra linea di ricerca, si lavora con campioni infetti. Perché alcuni sono infetti con pochi sintomi o addirittura senza sintomi? Perché altri invece hanno una malattia grave e anche letale? Cerchiamo di scoprire qual è la differenza. È possibile che infezioni recenti con altri virus “benigni”, che causano il raffeddore, paradossalmente diano un po’ di protezione contro il corona. Oppure è possibile che i casi più gravi siano una risposta esagerata del sistema immunitario, che non controlla il virus e anzi fa danni».
Secondo lei quali sono i tempi della scoperta di un vaccino utile?
«Qui le buone notizie sono due. Primo, non si tratta di “un” vaccino, ma di diversi. Inoltre, i vaccini sono già stati “scoperti” o disegnati, e sono in varie fasi di produzione. Adesso si tratta di testarli, per vedere se sono sicuri e soprattutto se sono efficaci. Nel qual caso, poi bisognerà procedere alla produzione su larga scala. Ci sono molti vaccini diversi in varie fasi. Noi siamo in contatto con diversi gruppi, e speriamo di poter dare un contributo confrontando le reazioni immunitarie indotte dai vaccini con quelle misurate in malattia. I tempi però, anche correndo, sono lunghi».
Si possono quantificare?
«Certo diversi mesi o un anno, e ci vorrà tempo finche la distribuzione sia capillare e raggiunga tutti».
Ritiene utile anche la metodologia dei test sierologici rapidi?
«Questa è una domanda molto importante. I test sierologici potrebbero essere uno strumento fantastico per capire meglio chi è stato esposto e chi no, e chi è presumibilmente immune. Noi ci stiamo lavorando e abbiamo la possibilità di fare questi test. Però al momento non li abbiamo ancora messi in operativa. Il problema e che c’è bisogno di chiarezza a livello istituzionale. Adesso come adesso non è chiaro in Usa, e a San Diego e nell’Istituto, quali sarebbero le conseguenze operative per un test positivo. Comprensibilmente c’è molta paura attorno al virus. Le faccio un esempio».
Prego.
«Se noi che lavoriamo nel laboratorio ci testiamo e risultiamo positivi ma senza sintomi, che cosa succede? Dobbiamo andare a casa e mettere noi e le nostre famiglie in quarantena? Oppure possiamo lavorare con tranquillità perché siamo ormai immuni?».
Certo è un tema delicato. Vaccinarsi avrà costi alti?
«Questa non è la mia area di competenza. Tuttavia mi sembra improbabile. Se lei si riferisce a costi di sviluppo e produzione, sì, i costi sono sempre elevati per qualsiasi vaccino, e se si vuole fare in fretta i costi aumentano, perché bisogna fare diverse cose in parallelo e a rischio. Se lei mi chiede dei costi per la gente, il discorso è diverso. Proporre vaccinazioni costose sarebbe molto impopolare. E poi un vaccino funziona al meglio quando siamo tutti vaccinati. Perciò deve essere alla portata di tutti».
Quali Paesi in particolare stanno lavorando sui vaccini?
«Sviluppare un vaccino è nella maggior parte dei casi uno sforzo globale. Gli Stati Uniti stanno lavorando molto e ci sono quasi una decina di candidati. Ma credo un po’ in tutto il mondo ci sono diversi prototipi. Proprio ieri ero al telefono con colleghi in Nuova Zelanda, che mi parlavano dei loro progetti. Siamo anche in contatto costante con diversi colleghi italiani in vari ospedali, veri eroi di questi tempi difficili».
Quale atmosfera si respira, per così dire, negli Stati Uniti e in particolare in California? I cittadini restano a casa? Hanno paura? Hanno fiducia nelle decisioni di Trump?
«Qui a San Diego, la gente le cose le sta prendendo seriamente, e ogni giorno di più. La California e in “lock down” e avere iniziato relativamente presto è probabilmente stato cruciale per limitare l’impatto. Fino a un paio di settimane fa, la gente andava ancora in spiaggia. Oggi le spiagge sono chiuse e presidiate dalla Polizia. Il sindaco ha ufficialmente proibito di fare surf. Ha richiesto ma non imposto (almeno per il momento) di portare la mascherina quando si è fuori di casa. Mia moglie e io stiamo bene, e anche mio figlio Pietro, ingegnere elettronico, che siccome può lavorare da casa e tornato a San Diego da noi. L’Istituto è chiuso come pure tutte le Università. Ma chi lavora sul Covid è esente. Io esco solo per andare in laboratorio. Siamo rimasti in dodici, virologi e immunologi, e le infermiere del gruppo clinico».
Ci parla dei ricordi legati a Santeramo? Ci ritorna spesso?
«I ricordi di Santeramo sono molti. Ogni anno, quando eravamo piccoli, in estate io e mio fratello venivamo a Bari per la Fiera del Levante, e visitavamo Santeramo. Il legame con la Puglia io lo sento ancora fortemente, sebbene viva negli Usa da quasi 35 anni. Quando posso, visito la Masseria Pietro Sette. Ho amici e cugini a Santeramo. Mia moglie, americana, ma sta prendendo la cittadinanza italiana, ama Matera, Santeramo e la Puglia. C’è poi il legame con l’Istituto superiore intitolato a papà, che onore per noi. Qualche anno fa feci una lezione in videoconferenza e mi sentii decisamente commosso e onorato, come pure quando ho avuto occasione di visitare la scuola, con mio figlio Pietro».