Premier e segretario, così vicini così lontani
E poi ci si lamenta del fatto che l’Italia conta poco o nulla in Europa. Mancano 5-6 mesi alle elezioni politiche, ma un dato sembra acquisito. Nessuna coalizione otterrà la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, di conseguenza si apriranno i balli per dare vita ad alleanze più o meno spurie. Inutile dire che, in tal caso, il nome del presidente del Consiglio sarà figlio della più lunga trattativa di sempre e che il prescelto sarà il primo ad essere incredulo quando giurerà nelle mani del Presidente della Repubblica. Il tam tam di queste settimane dà per assai probabile la formazione di un «governo del Presidente», ossia di una compagine di fatto selezionata, tutelata e teleguidata dal Capo dello Stato. È già accaduto altre volte, in passato, che il vero numero uno del governo risiedesse al Quirinale, anziché a Palazzo Chigi. L’anomalia potrebbe ripresentarsi ancora.
I bene informati osservano, però, che difficilmente Sergio Mattarella concederebbe la sua benedizione a una soluzione «presidenziale» e che, di fronte a uno stallo inestricabile, egli potrebbe essere tentato di richiamare gli italiani alle urne.
La questione del premier è fondamentale oggi. Sarà ancora più dirimente domani. È fondamentale oggi, perché la diarchia tra Paolo Gentiloni e Matteo Renzi ha riportato all’attenzione un problema che pareva dimenticato: l’oggettiva difficoltà di convivenza tra il presidente del Consiglio e il leader del partito di maggioranza. Tutte le crisi politiche della Prima Repubblica sono dipese dalla rivalità tra queste due figure-chiave. Sembrava che, nel caso Gentiloni-Renzi, sarebbe andata diversamente e che i due avrebbero avviato una coesistenza priva di ombre e di frizioni, ma le cronache delle ultime settimane hanno smentito queste ottimistiche previsioni. Gentiloni e Renzi non litigano come litigavano tutti i loro rispettivi predecessori al vertice del governo e del partito, ma di sicuro - nonostante la mitezza del presidente del Consiglio - non si può sostenere che vadano d’amore e d’accordo come i fidanzatini di Peynet.
Del resto è inevitabile. Due personalità distinte non possono ragionare alla stessa maniera: sia per ragioni di temperamento, sia per ragioni di attitudini, ruoli, ambizioni, programmi, progetti.
Altrove, in altri Paesi democratici, il possibile inghippo è tagliato alla radice. Il leader del partito di maggioranza diviene automaticamente il Capo del governo. Anche l’Italia ha sperimentato (poche) stagioni all’insegna del doppio incarico, ma il doppio incarico, complice la conflittualità endemica fuori e dentro i partiti, non appartiene alla tradizione politica nazionale. Anche perché, da noi, il presidente del Consiglio è solo un primus inter pares. Non dispone cioè dei poteri (effettivi) che molte Costituzioni estere assegnano al Primo Ministro. Solo con il potere (diretto e indiretto) assicuratogli dalla leadership di partito il titolare di Palazzo Chigi potrebbe dirigere, da vero direttore, l’orchestra di governo. In caso contrario, solo mediazioni estenuanti, rinvii continui, verifiche infinite. Come avviene da circa 70 anni.
Se persino due amici come Gentiloni e Renzi - direbbe Umberto Bossi - non trovano la quadra, figuriamoci cosa ci potrebbero riservare altre combinazioni, altri consolati bicefali.
Il che potrebbe persino essere rubricato come un problema tutto sommato minore, o addirittura come una felix culpa, dato che eviterebbe concentrazioni di potere. Ma un governo diretto da presidente orfano di poteri reali è un governo che, specie a livello internazionale, può farsi sentire solo sino a un certo punto. Nella migliore delle ipotesi, abbaia alla luna. Si possono calcolare sulle dita di una mano coloro che, negli ultimi 50 anni, hanno rivestito responsabilità di governo in Germania, Francia e Gran Bretagna. In Italia, invece, si perderebbe il conto. Né vale controbattere, pur con fondatezza di argomenti, che il viavai ministeriale non va confuso con la stabilità politica, che è segnata dalle formule e dai programmi. La giostra dei premier italiani nelle riunioni del G7, dei governanti europei e degli organismi sovranazionali, non giova all’autorevolezza di chi rappresenta la Penisola e, soprattutto, non giova alle cause da quest’ultimo sostenute.
Ecco perché bisognerebbe riaprire il capitolo sul ruolo e sui poteri del presidente del Consiglio in Italia. Uno, perché la stabilità politica e lo stesso bipolarismo dipendono dalla forza del Capo del governo, piuttosto che dai sistemi elettorali. Due, perché in un mondo ad alto tasso di competitività, è quanto meno bizzarro che il rappresentante di una nazione come l’Italia partecipi ai consessi internazionali con l’orecchio teso a intercettare le notizie in arrivo da Roma. La qual cosa lo rende meno credibile e meno autorevole quando si analizzano dossier scottanti, tipo quelli finanziari, energetici, militari eccetera.
Mettiamoci d’accordo. Da un lato si cerca di non affidare poteri incisivi al premier. Da un lato si pretende che l’Italia si faccia ascoltare di più in Europa. Ma questi due auspìci si contraddicono come il diavolo e l’acqua santa.
Giuseppe De Tomaso
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