La migliore legge elettorale che il Parlamento può approvare

GIOVANNI VALENTINI

Un grande politologo come Giovanni Sartori, considerato uno dei massimi esperti di scienza politica a livello internazionale e scomparso purtroppo nell’aprile scorso, insegnava che non esiste una legge elettorale valida per ogni Paese in ogni tempo. E con la sua autorevolezza accademica spiegava che né il sistema proporzionale né quello maggioritario garantiscono di per sé la stabilità e la governabilità. Fatte queste premesse, possiamo convenire allora sul fatto che la legge elettorale migliore è quella che in un determinato contesto un Parlamento riesce ad approvare con il consenso più ampio possibile.

Potrebbe essere proprio il caso del cosiddetto “Rosatellum 2.0”, l’ultima proposta presentata nei giorni scorsi dal capogruppo del Pd a Montecitorio, Ettore Rosato, che da lui appunto prende nome. Un impianto sostanzialmente proporzionale, con uno sbarramento al 3% e un correttivo maggioritario in 231 collegi uninominali, pari al 36% dei seggi della Camera. Si tratta, obiettivamente, di un passo avanti rispetto al progetto precedente, anche se probabilmente non basterà a risolvere i problemi di stabilità e governabilità.

Questa non sarà la migliore legge elettorale in assoluto, ma verosimilmente è la migliore che il Parlamento in carica possa ratificare. Quella, cioè, che rappresenta un punto di equilibrio su cui il Partito democratico, Forza Italia, Lega e i centristi di Area popolare sono disposti a convergere. Non a caso la Costituzione stabilisce che sia una legge ordinaria, per la quale è richiesta una maggioranza semplice. Quanto al Movimento 5 Stelle, la sua dichiarata indisponibilità a qualsiasi alleanza con altre forze politiche lo relega di fatto nell’isolamento: la preferenza dei grillini per il sistema proporzionale “puro”, senza alcun correttivo maggioritario, corrisponde in effetti a una condizione cronica d’instabilità e ingovernabilità.

Non bisogna dimenticare, d’altra parte, che in questo momento l’Italia non ha una legge elettorale vigente, se non quella residua prodotta dalla sentenza con cui la Corte costituzionale ha censurato l’Italicum proposto da Matteo Renzi per Montecitorio, dopo l’abrogazione del Porcellum imposto a suo tempo dal centrodestra. Occorre pertanto approvare al più presto una riforma omogenea per entrambe le Camere, come il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha già ripetutamente auspicato. Tanto più che le ultime elezioni in Germania, di fronte alla frammentazione dello schieramento politico e sebbene la Cdu di Angela Merkel abbia conquistato il 33%, hanno dimostrato anche l’insufficienza del mitico sistema tedesco, con lo sbarramento al 5% e la correzione dei collegi uninominali “personalizzati”.

Ammesso dunque che nel corso dell’iter parlamentare il “Rosatellum 2.0” non venga affossato dall’opposizione a Cinquestelle e dai “franchi tiratori” del Pd, questa sembra al momento l’unica legge elettorale su cui si possa aggregare una maggioranza sufficientemente ampia e rappresentativa. Sarà la base su cui in seguito si costituirà un nuovo “Patto del Nazareno”? E cioè un accordo di governo fra il Partito democratico e Forza Italia, con l’eventuale partecipazione di partiti minori che abbiano superato la soglia del 3%? Si vedrà a tempo debito. Ma, nel nostro attuale assetto tripolare, questo non sarà eventualmente l’effetto della riforma, bensì la conseguenza dell’autoesclusione con cui il M5S si chiama fuori preventivamente da ogni ipotesi di alleanza.

L’esito delle “primarie-flop” con la candidatura di Luigi Di Maio alla carica di presidente del Consiglio, votato online da appena trentamila iscritti, al momento non sembra preludere a una vittoria autosufficiente dei Cinquestelle, nonostante la svolta moderata espressa da questa scelta. A parte le polemiche interne che hanno provocato una palese dissociazione dell’ala più ortodossa, guidata da Roberto Fico e Alessandro Di Battista, il giovane vicepresidente della Camera non ha – perlomeno, non ancora - l’autorevolezza e il carisma per raccogliere consensi anche al di fuori del suo Movimento. E per di più il “doppio incarico”, di premier e capo politico, lo espone al tiro incrociato del “fuoco amico” e degli avversari esterni che già nella Prima Repubblica costò caro a Ciriaco De Mita e che ora viene minacciato anche contro Renzi.

Questi possono apparire argomenti per addetti ai lavori, per i tecnici o per gli esperti della materia. Ma in realtà la legge elettorale è la “madre di tutte le leggi”: quella da cui dipende la formazione di una maggioranza parlamentare e di un governo. Senza una riforma elettorale, a prescindere dal responso delle urne, l’Italia rischierebbe di perdere credibilità e affidabilità agli occhi dei partner europei e dei mercati internazionali, proprio mentre sta lentamente e faticosamente segnando un’inversione di tendenza sulla strada della ripresa. E ne pagheremmo le conseguenze tutti noi, cittadini ed elettori di questo tribolato Paese.

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