L'analisi

La concorrenza trova un amico ma forse non un tesoro

Giuseppe De Tomaso

In Italia, la parola «concorrenza», fatta eccezione per i soliti «quattro gatti» (in senso non spregiativo, si chiaro) invaghiti della piena libertà, non ha mai potuto contare su cospicue legioni di fedeli e supporter

Le idee producono conseguenze. Accade anche alle idee malsane, chiosava, caustico, John Maynard Keynes (1883-1946), a quelle spesso appartenenti a qualche economista semisconosciuto e defunto da un pezzo. In effetti, l’economia è una battaglia di idee, prima che un terreno competitivo dove i produttori di beni e servizi si contendono il favore dei consumatori. Se le idee vanno nel verso giusto, evviva: la crescita è assicurata. Se le idee vanno, invece, nel verso sbagliato, addio sviluppo, addio benessere, addio miglioramento delle condizioni di vita per la gente comune.
Tra le idee che, negli ultimi secoli, hanno determinato il più diffuso e spettacolare progresso dell’umanità, il principio della concorrenza economica, da associare ovviamente al principio della libertà politica occupa, quasi certamente, un posto rilevante.
Ma, in Italia, la parola «concorrenza», fatta eccezione per i soliti «quattro gatti» (in senso non spregiativo, si chiaro) invaghiti della piena libertà, non ha mai potuto contare su cospicue legioni di fedeli e supporter. Maggiore fortuna hanno incontrato concetti ideologici e pratiche gestionali come il corporativismo, il dirigismo, il colbertismo, l’assistenzialismo, il protezionismo, il populismo, il localismo, il tribalismo (quest’ultimo stadio finale di tutti gli «ismi» precedenti). Infatti.

I magri risultati di cotanta indifferenza, se non di contrarietà, ai precetti della concorrenza sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. La concorrenza, invece, non è solo la più collaudata procedura di conoscenza e scoperta mai sperimentata dagli esseri umani, ma costituisce un baluardo indispensabile per la stessa libertà politica. «A cosa servirebbe la libertà di stampa - domandò un giorno provocatoriamente l’economista austriaco Ludwig von Mises (1881-1973) - se lo stato fosse il proprietario di tutte le tipografie?». Già a cosa servirebbe?
Eppure, accennavamo sopra, in Italia non solo la parola «concorrenza» non eccita, non seduce quasi nessuno, ma spesso viene accolta con un senso di malcelato fastidio da vasti settori della comunità politica e dall’establishment in genere, ossia da quella Razza Padrona e da quella Razza Predona che ingrassano grazie alla protezione assicurata loro dai vari Poteri Forti.
Eppure non c’è nulla di più rivoluzionario del concetto di concorrenza, che oltre a identificarsi con l’obiettivo della democrazia economica, ha il pregio di mettere sempre in discussione privilegi e rendite, incrostazioni feudali e favoritismi clientelari, monopoli privati e monopoli pubblici.

A proposito di monopoli. Luigi Einaudi (1874-1961) fece il diavolo a quattro nell’Assemblea Costituente per introdurre nella Costituzione una clausola anti-monopolistica, ma la sua proposta venne bocciata senza riserve, perché, come ebbe a spiegare successivamente Giuliano Amato, era radicata la convizione che la tutela della concorrenza corrispondesse alla salvaguardia di interessi privati, non pubblici.
L’esatto contrario di quanto avviene. Se c’è uno strumento che tutela gli interessi generali (a partire da quelli dei consumatori) a scapito di quelli privati, il suo nome è proprio concorrenza. Addirittura la concorrenza, per citare l’ambiziosa espressione trotzkista, richiama l’idea della rivoluzione permanente, perché prefigura un assetto produttivo sempre in divenire, in movimento, ontologicamente pronto all’innovazione e al cambiamento, congegnato per sconfessare dogmi e ipse dixit di varia natura, anche economica.
Guido Carli (1914-1993) fu un divulgatore inascoltato del vangelo della concorrenza, da lui ritenuta l’unico argine contro la tracimazione dell’industria pubblica a spese dei contribuenti. Alla scuola di Carli si è formato Mario Draghi, l’attuale presidente del Consiglio.

Appena ne ha l’occasione, Draghi non si risparmia nel tessere le lodi della concorrenza. Specie di questi tempi, mentre sta crescendo l’attesa per la ripartenza post-pandemica.
Draghi sa che non basta il Recovery Plan per rimettere in moto il Paese e per onorare, successivamente, le nuove cambiali sottoscritte, se al piano straordinario per la ripresa non seguirà una svolta sul versante politico-legislativo, una svolta tesa a divorziare dalla sub-cultura dei monopoli per sposare la cultura della concorrenza. La concorrenza, dunque, ritrova un amico, ma forse non ancòra un tesoro. Purtroppo non sempre ai segnali inequivocabili che arrivano da Palazzo Chigi fanno eco proposte e direttive similari da parte dell’intera squadra ministeriale. Esempio? Il golden power, ossia i poteri speciali affidati al governo per scrutinare (e dire l’ultima parola al riguardo) gli accordi tra le società italiane e le società straniere. Fino a quando questi poteri vengono esercitati su accordi e acquisizioni in settori strategici (difesa, telecomunicazioni eccetera), nulla quaestio. Ma se il raggio d’azione del golden power dovesse estendersi a quasi tutti i settori produttivi - come potrebbe verificarsi - , beh, allora lo scenario verrebbe sovvertito da cima a fondo, con buona pace di tutte le preghiere per l’affermazione dell’ideale concorrenziale.

Draghi fa bene a fare pedagogia economica da Palazzo Chigi. Alcuni ministri, però, dovrebbero far tesoro delle sue lezioni per evitare di sabotare, in corso d’opera, le idee del loro Principale. Sarebbe davvero il colmo se il governo guidato dal massimo tifoso della concorrenza producesse atti e provvedimenti ostili alla concorrenza medesima, e congeniali al potere discrezionale della classe politica, come la matassa del golden power di ultima generazione potrebbe lasciare intendere.

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