IL PUNTO
Non è soltanto una questione di vaccini
Il morbo ha avuto infatti conseguenze psicologiche altrettanto importanti su milioni di esseri umani
C’è un bollettino ombra di questa pandemia difficile da compilare. Perché più volte si è detto che il covid non ha colpito solo direttamente: le persone con sintomi più o meno gravi, gli ospedalizzati, i ricoverati in terapia intensiva. Il morbo ha avuto infatti conseguenze psicologiche altrettanto importanti su milioni di esseri umani che continuano a vivere la pandemia nella trincea di un’esistenza logorata da paure, ansie e frustrazioni. E gli italiani non sono stati certo risparmiati.
No, la pandemia non è una guerra per il sol fatto che, ad esempio, contro un virus combatti all’interno del tuo corpo e non all’esterno. All’esterno sei chiamato a esercitare, semmai, una resistenza, ma dopo due confinamenti, uno duro, totale, definitivo, nazionale (quello di marzo), il secondo più morbido ma non meno impattante dal punto di vista psicologico (forse anzi di più visti gli sforzi ancora in corso per abbassare la curva dei contagi), la cosiddetta crisi da stress post-traumatico era il minimo che potesse capitare.
In molti hanno accusato e accusano ancor più ora sintomi depressivi, soprattutto perché pensavano di avercela fatta, di aver lasciato alle spalle lo tsunami della primavera. Invece la cosiddetta seconda ondata ha scippato ogni idea di futuro, bloccato ogni capacità di progettare l’exit strategy, la via d’uscita. Se si pensa all’estate delle aperture, degli aperitivi sulla spiaggia, delle discoteche piene, delle vacanze all’estero, dell’oblio, del virus “clinicamente morto”, qualcuno avrà avuto sì scrupolo o rimorso. Ma i più se la son presi col destino cinico e baro o con i Governi, nazionale e locali, e le loro decisioni ondivaghe. Per poi ingozzarsi di antidepressivi. Molto più semplicemente il virus, tra le tante fragilità italiane messe a nudo, ha ricordato quanto senso civico manchi a una comunità imbattibile nel cercare forme e formule esorcizzanti – i canti sui balconi e le bandiere come se Pablito fosse ancora lì a segnare al Brasile – ma che si scioglie come neve al sole quando deve organizzarsi e battersi con serietà e severità contro le minacce collettive (ripetiamo: non è una guerra e la retorica bellica distrae dai veri obiettivi).
Nel suo libro “Malattia come metafora”, la scrittrice Susan Sontag avvertiva che qualsiasi morbo fa affiorare il meglio e il peggio degli uomini. Ecco il punto. Soffermarsi sul peggio appare ormai uno sterile esercizio. Basta la curva pandemica a certificarlo. E allora? Allora cerchiamo il meglio, cioè la possibilità di prevedere e progettare. Addirittura al di là della famosa “luce in fondo al tunnel” che ora è incarnata nella retorica immagine del vaccino (la strada è lunga). Progettare, prevedere. Qualche sera fa, in televisione, Marcello Tavio, il presidente della Simit, la Società italiana che studia le malattie infettive e tropicali ha detto che a monte della pandemia sussiste una questione fondamentale, che viene prima di ogni virus e che è urgente risolvere per non ritrovarci, fra pochi anni, a combattere con altri e ben più temibili morbi. E’ la questione ambientale, cioè come poter riparare ai danni – forse già irreparabili ma diamocela un’ultima speranza – arrecati dallo sfruttamento globale e dissennato dell’ecosistema operato negli ultimi decenni.
Ecco il punto. Riacquistare l’equilibrio interno (quello che è dentro di noi) recuperando l’equilibrio con la natura. Non è solo questione dei fondi europei del piano Next Generation, non è una questione (solo) di soldi. Bisogna tornare ad ascoltare gli alberi, il mare, l’aria. E tornare a imparare a vivere e ad abitare il mondo con rispetto di tutti gli esseri viventi. Se vogliamo davvero guarire servirà imitare, per esempio, la pazienza e la silenziosa tenacia delle piante (e degli animali).
Altrimenti non basteranno vaccini a immunizzarci dalla distruttiva disperazione del consumo e del suo contrario: la povertà.