Sud, piove sempre sul bagnato? Può sembrare una frase fatta, un luogo comune, un timore esagerato, ma la trasformazione digitale imposta con forza dallo smart working, soluzione indispensabile per contrastare i dolorosi effetti (anche sul piano occupazionale) provocati dalla pandemia, rischia di allontanare vieppiù il Mezzogiorno dall’Europa e dal resto d’Italia. Già tutto il Belpaese non figura ai primi posti, anzi, nella classifica europea della digitalizzazione dell’economia e della società. Il Meridione, poi, naviga in coda, superato pure da nazioni che fino a pochi anni addietro arrancavano come vecchie carcasse col motore fuso. Servirebbe uno scatto, una svolta, uno choc, in grado di svegliare le classi dirigenti nazionali e locali, ma, finora non si è visto nulla in proposito. Solo per problemi (risolvibili) di sicurezza? Addirittura, si è formato uno schieramento (politico e culturale) ostile al 5G (5th Generation), al web ultraveloce. Roba al cui confronto gli oscurantisti del Medio Evo farebbero la parte dei mega-innovatori.
Pochissimi dati. Il 5G sarà 20 volte più veloce della rete 4G, con una velocità di download fino a 10 volte superiore. Il tutto per una connettività più rapida di un lampo e per un traffico più scorrevole di un’autostrada spaziale.
Basterebbe solo questo flash per scatenare la nuova corsa all’oro, ma in Italia, si sa, tutto procede a rilento. Figuriamoci: sopravvivono i binari unici ferroviari, e, per restare in tema, la fibra ottica non copre l’intero territorio. Laddove arriva, specie nel Sud, si ferma solo alla cabina, non toccando le case degli utenti, ancora condannati ai collegamenti in rame. Insomma.
Servirebbe una rivoluzione, ma come direbbe la buonanima graffiante di Ennio Flaiano (1910-1972), c’è sempre uno sciopero o un temporale in grado di rinviarla a tempo indeterminato.
Ora. Se il futuro, o meglio già il presente, richiede un nuovo modo di lavorare, se stanno saltando i tradizionali vincoli di impiego legati al luogo e all’orario, se si sta rafforzando la tendenza a lasciare più autonomia ai dipendenti, responsabilizzandoli in funzione dei risultati, ecco se è in atto una transizione epocale paragonabile a quelle generate dal telaio meccanico e dall’elettricità, come sarà possibile per la parte meno sviluppata della Penisola reggere la sfida in una condizione di arretratezza culturale a tratti drammatica? Altro che risalita, il Sud rischia di precipitare in un girone infernale sempre più profondo.
A Roma la questione del turbo-web è sul tavolo del governo e dei partiti. Se l’Europa non bloccherà l’operazione, ritenendola lesiva per la concorrenza, presto verrà battezzata la rete unica formata da Tim e Cassa depositi e prestiti (Cdp). A dire il vero, nel mondo solo Singapore e Qatar hanno seguito la strada della rete unica, rinunciando alla competizione infrastrutturale, cioè alla concorrenza tra più reti. Ma la soluzione italiana, pur prestandosi a non poche perplessità, dal momento che la concorrenza rimane la più collaudata procedura di scoperta e il più razionale criterio di allocazione delle risorse, non va demonizzata a priori, manco nascondesse una colossale fregatura. La rete unica non va bocciata per un paio di ragioni.
Una: un conto è la rete, un conto sono le aziende dei servizi che potranno competere sull’infrastruttura, cercando di soddisfare le esigenze dei consumatori. L’importante è che la concorrenza sia assicurata sul fronte delle prestazioni per le imprese, le famiglie, i cittadini.
Due: l’Italia non è una nazione omogenea sul piano economico. Tra un territorio e un altro, anche a breve distanza, persistono dislivelli produttivi e culturali di proporzioni pazzesche. Solo una rete unica, una società mista con un significativo capitale pubblico potrebbe affrontare un volume di investimenti tecnologici nelle aree non redditizie, non convenienti per gli operatori di rete a capitale esclusivamente privato.
L’arrivo della fibra in ogni angolo del Paese costituisce un argomento a favore dell’intervento di riequilibrio territoriale e infrastrutturale da parte dello stato. Un intervento che può prevenire sul nascere le obiezioni dell’Europa e di tutti i sostenitori del mercato assoluto, visto che la rete unica non significa affatto requiem per la concorrenza, che verrebbe garantita dai fornitori dei servizi.
Ma c’è un ma. Il discorso testè fatto non tiene conto di un piccolo particolare: chi comanderà nella società mista cui farà capo la rete unica? In Italia, è risaputo, le questioni di governance (eufemismo sinonimo di lottizzazione) tengono banco più di un campionato di calcio e si trascinano all’infinito. È sufficiente sfogliare un giornale per averne conferma. Pertanto. Quali e quanti ritardi in termini di investimenti potrebbe causare la battaglia per gli incarichi nella nuova società? Quali e quanti scontri politici si scatenerebbero per meglio piazzare i manager o gli amici di riferimento?
Per ora l’Italia e, soprattutto, il Sud stanno a guardare, nella speranza di essere smentiti al più presto e di essere invasi dai cantieri digitali, oggi più preziosi di cento miniere di diamanti.