Il punto

Quella voglia matta di tornare alle urne

Giovanni Valentini

Il nostro premier gode di una larga fiducia da parte della popolazione. Eppure, nel suo legittimo ruolo di opposizione, il centrodestra continua a chiedere le elezioni politiche a settembre

Per esprimere un giudizio sereno e obiettivo sul governo in carica, all’indomani dell’emergenza provocata dall’epidemia di coronavirus, basterebbe fare un confronto tra i comportamenti di Giuseppe Conte in Italia, Donald Trump in America e Boris Johnson in Gran Bretagna. Per non parlare del dittatore cinese Xi Jinping o del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, risultato ora positivo al Covid-19.

E infatti, a giudicare almeno dai sondaggi, il nostro premier gode di una larga fiducia da parte della popolazione. Eppure, nel suo legittimo ruolo di opposizione, il centrodestra continua a chiedere le elezioni politiche a settembre e briga in Parlamento per indebolire la maggioranza e dare una spallata all’attuale esecutivo.

Non c’è niente di scandaloso in tutto questo. L’opposizione ha il pieno diritto di criticare il governo e di candidarsi a sostituirlo, anche se una “campagna acquisti” imperniata sul trasformismo parlamentare non è proprio lo strumento più trasparente per ottenere un tale risultato. Ma tant’è. La vita politica di una democrazia moderna dovrebbe fondarsi piuttosto sull’alternanza e sul ricambio alla guida del Paese, al termine naturale della legislatura, e cioè ogni cinque anni.

Senza negare minimamente all’opposizione la prerogativa di fare l’opposizione, dentro e fuori le aule parlamentari, c’è da chiedersi tuttavia se e quanto un atteggiamento del genere possa giovare all’interesse nazionale in una situazione particolare come quella che stiamo vivendo, in Italia e in tutto il mondo. Un’emergenza sanitaria, ma anche economica e sociale, alimentata e aggravata da questa terribile pandemia. Non si sbaglia verosimilmente a dire che, in una tale congiuntura, una crisi di governo favorirebbe chi la reclama più che la gran parte dei cittadini italiani: le elezioni anticipate sono l’ultima risorsa di cui c’è bisogno in questo frangente. E anche se – per ipotesi – il centrodestra riuscisse a vincerle, con ogni probabilità il Paese ne uscirebbe diviso, lacerato e addirittura ingovernabile.

Fa bene perciò il presidente del Consiglio a rivolgere un nuovo appello all’opposizione, per avviare un confronto parlamentare sul Piano nazionale di rilancio. E male fa o ha fatto se non accoglie nessuna delle proposte che provengono dal centrodestra, come lamentano più o meno strumentalmente gli esponenti della Lega, di Fratelli d’Italia e Forza Italia. È ovvio, tuttavia, che una tale dialettica presuppone da entrambe le parti la volontà di sviluppare un dialogo e cercare un punto di compromesso o di equilibrio, nella distinzione dei ruoli e delle rispettive responsabilità. Alla cosiddetta “dittatura della maggioranza”, teorizzata dal filosofo francese Alexis de Tocqueville nell’Ottocento, non può corrispondere all’opposto un “dispotismo della minoranza” che pretende di invertire i poli come i cavi di una batteria, con il rischio di danneggiare così l’impianto elettrico.

Se c’è invece una linea di confine tanto invisibile quanto invalicabile tra i due schieramenti, o magari anche al loro interno, il confronto non è destinato a sortire effetti positivi. Questo sembra, purtroppo, il nostro caso. In realtà, la linea di confine esiste ed è costituita dal rapporto con l’Europa, di cui la “querelle” sul Mes (il meccanismo europeo di stabilità) rappresenta emblematicamente il nervo scoperto o meglio ancora il punto di rottura. Un pomo della discordia, insomma, che in forza di un pregiudizio trasversale anti-europeo ha diviso finora sia la maggioranza di governo, il Pd e Italia Viva da una parte e il Movimento 5 Stelle dall’altra; sia l’opposizione di centrodestra, con la Lega e Fratelli d’Italia contrari e Forza Italia più disponibile.

Il fatto stesso che le componenti dei due fronti contrapposti possano litigare tra loro su un prestito fino a 37 miliardi di euro che l’Unione europea è disposta a erogare all’Italia a tassi minimi, senza particolari clausole o condizioni, vincolato soltanto all’obiettivo di finanziare le spese sanitarie “dirette o indirette”, la dice lunga sullo stato generale della nostra politica. Troppi tagli sono stati inferti negli ultimi vent’anni alla salute degli italiani, dai governi di centrosinistra o di centrodestra, per permetterci oggi di rifiutare un’opportunità così favorevole. Poi, eventualmente, si tratterà di impiegare i fondi al meglio, senza sprechi o distorsioni clientelari. Ma è proprio in questa situazione di stallo che ora, in vista di una votazione parlamentare sul “mini-Mes”, si profila l’eventualità che Silvio Berlusconi con la sua pattuglia superstite diventi l’ago della bilancia e addirittura possa “salvare” il governo al Senato: lì dove le forze della maggioranza sono state più erose dal trasformismo che ha contagiato i transfughi dei Cinquestelle, confluiti nel Gruppo misto o passati direttamente nelle file della Lega.

La situazione, dunque, “è grave ma non è seria”, come recita un celebre aforisma dello scrittore Ennio Flaiano. Tanto che, a quanto pare, cominciano a rendersene conto gli stessi “grillini”, preoccupati di lasciare campo libero alle incursioni di Forza Italia e del suo leader ultraottuagenario. Se alla fine il M5S si decidesse a votare a favore del Mes, in questa versione di “pronto soccorso” post-Covid, un appoggio di Berlusconi risulterebbe superfluo e non determinante per le sorti dell’esecutivo.
La politica, si sa, è l’arte del possibile. Ma in Italia può diventare anche l’arte dell’impossibile. E questa non sarebbe la prima volta e forse neppure l’ultima.

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