Speriamo che prima il caldo e successivamente il vaccino (un giorno o l’altro arriverà) «inducano» il coronavirus a togliere definitivamente il disturbo.
Un minuto dopo, però, sarà necessario affrontare la questione dei poteri tra Stato centrale e Regioni. L’emergenza sanitaria ha sollevato il velo sui pericoli - già prospettati due decenni fa dai non pochi scettici - contenuti nella riforma del Titolo Quinto della Costituzione, approvata nella primavera del 2001.
Non ci voleva la sfera di cristallo per prevedere un futuro di sovrapposizioni, contenziosi, scontri, rinvii permanenti tra Stato e Regioni: 22 materie concorrenti (tra cui la sanità) avrebbero reso difficile l’azione di governo persino in una classe politica formata da plotoni di angeli e santi.
Anche perché la nebbia normativa rendeva, e rende, complicato il tentativo di ridurre le controversie stabilendo l’ordine, la gerarchia di competenze tra il centro e la periferia. Invece è una specie di guerra fredda. Aggravata dal fatto che mentre le Regioni sono guidate da presidenti che, sul loro territorio, sono re, papi e cardinali, viceversa il governo nazionale è diretto da un presidente del Consiglio cui solo le esigenze di brevità nei titoli sui giornali attribuiscono il rango di premier.
Anche se il capo del governo spesso viene etichettato, in Italia, come un duce redivivo (neppure Giuseppe Conte è sfuggito a questo destino), i suoi poteri, nell’esecutivo, non sono minimamente paragonabili ai più cospicui poteri che, mutatis mutandis, esercitano i presidenti delle Regioni (forti della legittimazione popolare) nelle giunte e nelle realtà da loro pilotate.
Il Covid 19 ha portato drammaticamente alla luce le incongruenze e le contraddizioni di una riforma (2001) che, stringi stringi, ha messo sullo stesso piano Stato e Regioni, ignorando colpevolmente un piccolo particolare: alla stabilità e alla forza dei presidenti delle Regioni eletti dai cittadini non possono certo fare da contraltare un governo frutto di instabili alleanze parlamentari e un presidente del Consiglio raramente espressione di uno schieramento pre-elettorale.
Né questa asimmetria potestativa può essere appianata quotidianamente dalla Corte Costituzionale, bersagliata, in quasi 20 anni, da una costante alluvione di ricorsi. Altrimenti sarebbe più logico rassegnarsi alla paralisi e convenire che l’Italia è più ingovernabile della Torre di Babele.
Ok. La Consulta tende comunque a sottolineare la funzione dello Stato centrale, cui è portata ad assegnare un ruolo preminente rispetto agli altri enti territoriali. Ma, ripetiamo, non è saggio, né appagante, rassegnarsi al profluvio di contenziosi e alle successive decisioni della Consulta, sperando sempre che quest’ultima riesca a prendere la decisione migliore.
E, meno male, verrebbe da dire, che le Regioni non hanno approfittato in pieno delle opportunità concesse loro dalla revisione del Titolo Quinto della Costituzione. Altrimenti, il Belpaese si sarebbe già frantumato in mille pezzi.
Prima del morbo approdato dalla Cina ci avevano provato in tre (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) a chiedere poteri che, in sostanza, le avrebbero trasformate in Stati autonomi e indipendenti. Poi la pandemia ha messo in risalto l’impossibilità di poter affrontare, con criteri e mezzi locali, tragedie di scala e portata planetaria. Ma questa semplice constatazione non è servita a placare del tutto gli istinti campanilistici e le pulsioni autonomistiche/secessionistiche in un Paese che, nel fingere di credere in ciò che non crede, un giorno si scopre autarchico, un giorno si vede anarchico e un giorno si tuffa nel menefreghismo. E siccome l’appetito vien mangiando, non è da escludere che il protagonismo delle Regioni in campo sanitario - nonostante la supremazia statale fissata per legge nell’azione di contrasto delle epidemie - possa estendersi a tutte le rimanenti materie, sulla scia dell’obiettivo «autonomia differenziata» cui puntavano (e forse potranno puntare ancora) Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. In tal caso, amen.
Due interventi sono urgenti quasi come il vaccino anti-Covid 19. Uno: è inammissibile che convivano 21 sanità in un Paese solo. Prima o poi il sistema esplode, trascinandosi tutto il resto e annullando il mastice giuridico che unisce la nazione. Due: è inaccettabile che i presidenti delle Regioni siano autentici premier a casa loro, mentre il presidente del Consiglio a Roma è solo un primus inter pares tra i ministri. Non c’è parità ai blocchi di partenza.
È vero. Il presidente del Consiglio ha fatto eccessivo ricorso ai Dpcm, attirandosi gli attacchi di quanti giustamente difendono le prerogative del Parlamento. Ma ciò non muta i termini del problema: le Regioni agiscono come Stati autonomi, spesso imitate dai Comuni.
È indispensabile un’opera di chiarimento sulle competenze di Stato e Regioni. Né ci si può affidare solo al senso di responsabilità o all’autodisciplina dei singoli. Altrimenti, di strappo in strappo, il tessuto unitario dello Stivale non si ricuce più.
















