il pensiero
A quei cirenei eroi
«Il triste bollettino della guerra al virus assassino, bollettino quotidiano, malinconicamente ricorda i caduti sulla trincea della fratellanza umana e civile, i medici e gli infermieri»
Il triste bollettino della guerra al virus assassino, bollettino quotidiano, malinconicamente ricorda, e doverosamente, i caduti sulla trincea della fratellanza umana e civile, i medici e gli infermieri. A loro vada il mio pensiero di gratitudine per il silenzioso sacrificio quotidiano che tanto duramente pagano. E vada a loro il segno dell’affetto con l’asprezza della rabbia nostra di cittadini nella contemplazione della tragedia.
Aggiungo con malinconia e dolore la constatazione, purtroppo non sempre condivisa dagli organi d’informazione, del dramma che vede protagonisti i sacerdoti, i parroci e i religiosi in missione di beneficenza in chiese e parrocchie: il dramma della loro morte per contagio contratto nel praticare la missione sacerdotale. Si allunga inesorabilmente l’elenco dei sacerdoti deceduti dall'inizio della pandemia. La loro Via Crucis dura dal principio della tragedia: ora sono cento, i morti, in un mese e mezzo. Molti nomi sono noti solo alle comunità che li hanno avuti come guide, di altri l'intera diocesi, e non solo, conosceva il volto, la storia e l'impegno pastorale. Con i quattro sacerdoti spirati sinora durante la Settimana Santa il totale è ora di cento preti diocesani e religiosi in servizio pastorale presso parrocchie, ai quali va aggiunto l'elenco ancora più lungo (e tutto da ricostruire) dei consacrati e delle suore. Il mio pensiero va a loro e questo pensiero che condivido con i lettori della Gazzetta del Mezzogiorno in questo giorno di Pasqua a loro dedico.
E al mio parroco della Parrocchia di San Pietro in Vincoli, a Bitonto. Ognuno ha un parroco nella vita e rimane lui, «quel» parroco, l’antonomasia dei consiglieri spirituali. Don Vincenzo aveva un bellissimo calciobalilla e lo teneva in una stanzetta della sacrestia, lustro e smagliante coi pupazzetti rossi e blu e le stecche lucidate a puntino. A me, bambino, piaceva moltissimo, naturalmente, e, naturalmente, desideravo pazzamente giocarci. Don Vincenzo lesinava i permessi e li concedeva come premio ai più meritevoli dei chierichetti. Animate partite si svolgevano anche tra i seguaci del corso di catechismo che pazientissime signore tenevano negli interminabili pomeriggi «tutti azzurri e lunghi» di paese. Mio nonno le chiamava con sorniona malizia, non esente da benevolenza, «le bizzoche», in italiano «pinzochere», termine traducibile, ma solo a stento, con beghine. La parola comporta un’effusione di dileggio che mancava nel tono di mio nonno che, invece, comprendeva il rispetto che si deve ad una vocazione. Tale vocazione faceva sì che le pie signore c’insegnassero i rudimenti serafici della dottrina religiosa e la storia sacra.
Le volte alte della chiesetta risuonavano delle vocine in coro dei bambini. Io, spessissimo, mi distraevo, non solo perché il pensiero innocente aleggiava verso il calciobalilla che stava lì, fermo e inerte, ma anche perché lo sguardo svolazzava in giro in cerca d’evasione.
E, allora, viaggiavo tra gli altari coi santi estasiati di vedute mistiche e definitive, indugiando sulle lapidi grigiastre che decretavano epigrafi nel loro latino sbrecciato e appuntato, fermandomi sulle icone sbilenche della «Via Crucis» issate selle colonne laterali del piccolo tempio. Il racconto dolcissimo e scandaloso della Passione e Morte del Cristo si sgranava, stazione per stazione, fino all’epilogo risaputo da tutti Cristiani e compianto fino alla rabbia dai minimi catechisti che eravamo noi bambini. Io pensavo che la Via Crucis fosse una specie di fumetto con quelle immagini che frammentavano il racconto e l’accostamento mi sembrava blasfemo. Più tardi avrei imparato che avevo ragione e che avevo intuito una struttura narrativa precisa. Ne ho scritto domenica passata. Ma, allora, per perdonarmi, studiai quelle figure con zelo devoto e curiosità.
Una soprattutto mi colpiva e attraeva: quella che rappresentava un uomo che soccorreva Gesù sul Calvario e gli sorreggeva la Croce. Don Vincenzo lo chiamava «il Cireneo».
Indagai e scoprii che costui non era particolarmente devoto o acceso d’entusiasmo nel seguire il Maestro: semplicemente compiva un gesto di bontà, praticando la generosità e l’altruismo per un povero sconosciuto in pena. Un uomo, un uomo semplice che asciuga le lacrime terrene d’un altro uomo e l’aiuta a portare la sua croce. Ecco: si fa carico pesante e terribile delle croci degli altri. Avrete notato che ho scritto la parola croce in minuscolo: perché è quella di tutti, dei dolenti abitatori di «quest’atomo opaco del male», secondo la definizione d’un poeta che, quando a scuola si leggevano le poesie, noi catechisti studiavamo. Confidai questa riflessione a Don Vincenzo il quale si compiacque e mi lodò, ma non mi indicò, come di solito faceva se intendeva premiarmi, la stanzuccia del calciobalilla. M’imbronciai. Don Vincenzo mi spiegò che ci stavano giocando altri assai più sfortunati di me, bambini che lavoravano e faticavano e che non avevano l’opportunità di scegliersi il tempo per giocare e leggere il Pascoli. E neanche De Amicis che, pure, di loro, parlava.
Questo era il mio parroco.
Ieri sera, seguendo la Via Crucis nell’immane vuoto della piazza San Pietro, ho visto un parroco Papa che si commuoveva. Sapeva che erano in processione i preti e le suore e i medici e gli infermieri e i volontari e i carabinieri, i poliziotti gli uomini e le donne dello Stato caduti nel compimento del dovere di essere Cirenei.
Mi viene in mente che si potrebbe organizzare per raccogliere fondi per la ricerca scientifica, magari per l’Airc, un torneo di calciobalilla. Potremmo chiamarlo «Torneo Don Vincenzo».