Il punto
Le forbici sugli eletti e il futuro del Parlamento
Tra pochi giorni la Camera approverà in via definitiva la riforma costituzionale che prevede il taglio di 345 senatori e deputati
Tra pochi giorni la Camera approverà in via definitiva la riforma costituzionale che prevede il taglio di 345 senatori e deputati. Un cavallo di battaglia dei Cinque Stelle che Di Maio è riuscito a far considerare una priorità prima alla Lega e poi al Pd. Certo restano in piedi alcune incertezze legate ai tempi in cui la riduzione del numero dei parlamentari entrerà effettivamente in vigore, alcune incognite in ordine alla legge elettorale che ne interpreterà al meglio lo spirito, considerando nel contempo la necessità di rivedere le dimensioni dei collegi in cui far esprimere ai cittadini il voto, ma non può sfuggire il valore politico di questa riforma anche per la sua capacità intrinseca di riportare al centro del discorso pubblico il tema della rappresentanza degli elettori.Il presente ed il futuro della politica, non solo italiana, si giocano sul modo in cui governare strumenti vecchi e nuovi utili a garantire una maggiore simmetria tra elettorato attivo ed elettorato passivo con l’intento, neanche più di tanto nascosto, di non alimentare sentimenti di antipolitica da parte di cittadini in passato sfiduciati nei confronti dei partiti, ma anche di evitare pratiche disinvolte come quella dei continui e diffusi cambi di casacca.
Analizzando i dati pubblicati da Openpolis emerge che nella XVI legislatura i parlamentari passati da un partito all’altro o da uno schieramento all’altro sono stati 181. Alcuni hanno fatto ricorso a questa pratica più volte, aggravando la percezione esterna della propria incoerenza politica. Nella XVII legislatura sono stati 348, quasi il doppio della precedente. In quella in corso, la XVIII legislatura, i cambi dopo la costituzione del nuovo partito di Renzi, sono già arrivati a 79. Modificare maggioranze parlamentari è legittimo. Non c’è niente di male a cambiare le proprie idee specie quando alla base c’è la necessità di dar vita a nuovi progetti politici, quando le proprie posizioni restano relegate all’interno di aree culturali di riferimento, nel perimetro di approcci ideologici maturati sulla società e sui suoi sistemi e sottosistemi o quando l’alternativa è più convincente. Ma la spregiudicatezza è altra cosa. Non è condotta etica. Un gruppo di psicologi della British Columbia University ha studiato il fenomeno sia in politica, sia nella vita quotidiana.
Tra approvazione spontanea per fatti nuovi dai quali spesso ci sentiamo attratti, modifiche del ricordo di comportamenti precedenti e di segno contrario, processi di razionalizzazione ed accettazione anche di ciò che non ci piace, resta centrale la metafora del “carro del vincitore”. Metafora che può essere spiegata così: quando capiamo che qualcosa che sta per accadere accade davvero, ci adeguiamo per predisporci ad accogliere al meglio l’innovazione fino al punto di volerne essere noi gli artefici. Al netto della definizione scientifica, si tratta di un modo utile a comprendere quanto sta accadendo nella politica italiana in questa fine estate 2019. Non si deve confondere la necessità di contrastare questa cattiva pratica, la quale continua ad essere consumata nell’esercizio del sacrosanto diritto-dovere di rappresentanza dei propri elettori, con la libertà del parlamentare di dissentire dal proprio gruppo su uno o più provvedimenti per ragioni varie, comprese quelle afferenti alla propria coscienza.
L’articolo 67 della Costituzione, in naturale collegamento con il “divieto imperativo” formulato da Edmund Burke sul finire del Settecento, ha normato (come fanno del resto quasi tutte le Carte dei Paesi democratici) la necessità che il singolo parlamentare non sia vincolato ad alcun mandato nell’esercizio della propria funzione in modo da tutelare l’interesse superiore della nazione. Ma questo non significa che non ci si debba porre il tema delle conseguenze di un’azione individuale al di fuori del contesto dell’appartenenza politica. Tutto ciò, pur ricordando che i regolamenti parlamentari di entrambe le Camere conferiscono a deputati e senatori il diritto di esprimere posizioni dissenzienti rispetto al proprio gruppo politico.
Chi pone il tema del trasformismo parlamentare, a maggior ragione in un assetto che riduce il numero degli eletti, specie in un periodo in cui la rappresentanza sconfina nella rappresentazione ed in cui il potere decisionale scivola in direzione della seduzione per dirla con Bordieu, parte dal presupposto che occorra porsi il problema della reale comprensione dei processi politici da parte dei cittadini.
La forte spinta verso la democrazia diretta, così come la tendenza a fare ricorso ai referendum (come del resto dimostra la recente strategia di Matteo Salvini) nascono proprio da qui. Non si tratta di cambiare la nostra Costituzione per la delicatezza del principio che sottende all’articolo 67 e cioè il vantaggio della rappresentanza nazionale e generale e la presa d’atto che il singolo parlamentare non agisce come mandatario degli elettori. Piuttosto si può puntare alla modifica dei regolamenti parlamentari. Quasi un obbligo se si vuole contrastare il trasformismo e si vogliono creare i presupposti per un nuovo assetto in cui agli elementi quantitativi si associno anche quelli di tipo qualitativo. Il riferimento è soprattutto alla natura della prossima legge elettorale. Siamo chiari. La prima e più grande forma di distorsione risiede nel fatto che i parlamentari non sono scelti dagli elettori sulla base di ciò che effettivamente sono dal punto di vista identitario, di quello che hanno fatto o di quello che intendono fare a tutela dei singoli territori.
Capita spesso che essi vengano imposti sulla base di esercizi di potere e logiche di maggiore o minore fedeltà al leader. Un Parlamento di nominati e non di eletti è un problema per il corretto funzionamento della democrazia rappresentativa e costituisce, anche solo indirettamente, un fattore di accelerazione delle condotte trasformistiche. La riduzione del numero dei parlamentari acquista maggior senso se associata ad una modifica della legge elettorale in ossequio a due obiettivi prioritari: la migliore rappresentanza possibile e la più sicura governabilità.
Sulla riduzione del numero dei parlamentari il segretario del Pd Zingaretti, memore del fatto che il suo partito è stato l’artefice di una significativa contrazione dei costi in occasione della riorganizzazione dei consigli provinciali con la cosiddetta legge Delrio, ha dimostrato con il Movimento senso di responsabilità, anche nell’interesse della compattezza della nuova coalizione. Si deve ripartire da qui per individuare le migliori soluzioni tecniche per l’approvazione della prossima legge elettorale. Di Maio spinge più in direzione del proporzionale, mentre Zingaretti, in linea con la tradizione Dem, è favorevole al maggioritario, anche per evitare i rischi di un eccesso di frammentazione del quadro politico. Vedremo anche in che modo verrà affrontata la questione della soglia di sbarramento. Intanto che si sciolgano questi e altri nodi, vale la pena di ricordare che se milioni di italiani negli ultimi anni hanno creduto nella forza di proposte politiche innovative, nella possibilità di implementare il tasso di partecipazione attiva dei cittadini, vuol dire che, almeno finora, il cambiamento nato dal basso è stato più forte di quello deciso dall’alto. Sottovalutare o trattare con sufficienza questa verità può rivelarsi un errore fatale. Per tutti.