L'analisi
La teoria del nemico e l’ossessione visibilità
Le forze politiche al governo, tuttavia, stanno attuando una strategia che potremmo egualmente definire della tensione
Chi ha praticato o studiato gli anni settanta del secolo scorso ricorderà la teoria politica della “strategia della tensione”, che ascriveva attentati e stragi di quella funesta stagione a un disegno eversivo teso a destabilizzare le istituzioni. In sostanza, attraverso azioni eclatanti che colpivano in maniera indiscriminata il popolo italiano, ci si proponeva di distogliere l’attenzione del Paese dai problemi reali, di arginare le istanze sociali di rinnovamento allora rappresentate essenzialmente dal Pci, preparando una svolta reazionaria finalizzata, per l’appunto, a combattere le proteste diffuse dei ceti sociali meno fortunati. Oggi, fortunatamente, non siamo negli anni di piombo e non vi sono, allo stato - conflittualità sociali che possano far temere pericolosi sommovimenti.
Le forze politiche al governo, tuttavia, stanno attuando una strategia che potremmo egualmente definire della tensione: individuare un nemico – questa volta all’estero – per spostare l’attenzione del popolo (entità indifferenziata così gelosamente custodita dai nuovi governanti) verso altra direzione. Per Matteo Salvini il leit motiv è costituito dai migranti (nemici-persona), per Luigi Di Maio in questi giorni la Francia (nemico-Stato).
Sicuramente pesano in queste scelte ragioni elettorali: ciascuno dei componenti del governo bifronte cerca di acquisire spazi e visibilità quanto più ampi possibili in vista della ormai prossima competizione europea, e i Cinquestelle – a fronte di un socio quasi monopolista – cercano di guadagnare il terreno perso.
Ma c’è anche qualcos’altro, qualcosa di diverso. Il fenomeno, infatti, non costituisce una novità. Carl Schmitt, filosofo e giurista tedesco, teorizzò nell’agire politico la contrapposizione tra amico e nemico (interno o esterno), ritenendo altresì che i nemici esterni dovessero essere individuati mediante lo ius belli. Tra i principali supporter del regime nazista, Schmitt finì per fornire ad Hitler la base concettuale ed ideologica dell’escalation di aggressioni ai Paesi europei da cui scaturì il secondo conflitto mondiale. La teoria del nemico, del resto, ben si coniuga con il nazionalismo e con i regimi autoritari, che recidono progressivamente i legami con gli altri Stati trasformandosi in autocrazie.
Quanto all’obiettivo scelto da Di Maio & co., possiamo dire che i pentastellati hanno scelto di giocare facile. Sono note le molteplici ragioni di rivalità tra Italia e Francia, a più livelli, che hanno ascendenze risalenti almeno a due secoli orsono. Un rapporto di odio-amore, come qualcuno ha detto, tra noi e i nostri cugini. Dalle più recenti e ‘leggere’ rivalità calcistiche a quelle culinarie (siamo noi o sono loro i più bravi?).
Ma, soprattutto, vi sono una serie di vicende politiche che nel corso della storia hanno contrapposto gli italiani ai transalpini. Basti pensare alla caduta di Gheddafi nel 2011, con il blitz degli aerei francesi che consentì la cattura di quello che era un interlocutore privilegiato del nostro governo. E pensare che nel 1969, quando Gheddafi salì al potere allontanando gli italiani, fu proprio la Francia a fornire al rais i primi aerei da combattimento. E poi le vicende che portarono all’unificazione del nostro Paese nella seconda parte del XIX secolo, in cui francesi e italiani furono, di volta in volta, alleati o avversari.
Ancora, le tante questioni coloniali. Nel 1881 la Francia trasforma in protettorato la Tunisia, colpendo i diritti della comunità italiana, la più consistente tra quelle straniere. Nel 1935 Mussolini invade l’Etiopia contando sull’assenso tacito della Francia negoziato pochi mesi prima: arrivano invece la disapprovazione e le sanzioni. Cinque anni dopo l’Italia dichiarerà guerra alla Francia. Infine, gli scontri commerciali: la Fiat che nel 1968 acquista una quota rilevante della Citroën e, oggi, i tanti gruppi imprenditoriali francesi (Amundi, BNP, Kering, Lactalis, Vivendi, etc.) che hanno acquisito importanti realtà della nostra economia (Bulgari, Edison, Gucci, Parmalat, Telecom, etc.).
Non è, naturalmente, la fisionomia del nemico che si sceglie a contare, ma l’approccio stesso alle dinamiche internazionali che tale atteggiamento implica. Siamo agli antipodi rispetto a una visione collaborativa, di dialogo, di sinergie, che costituisce la cifra di ogni organizzazione sovranazionale nata dopo la seconda guerra mondiale al grido di “mai più guerra”. È questo il senso della tanto vituperata Unione europea, istituzione certo non perfetta e che ha contribuito al suo stesso declino ma che non può essere cestinata con un battito di ciglia come un foglio macchiato d’inchiostro.
Aldo Moro, nel 1969, elaborò in contrapposizione al concetto di “strategia della tensione” quello di “strategia dell’attenzione”, che si proponeva di rendere possibile il più ampio dialogo, senza alcuna ambiguità e comodità, al fine di realizzare «una nuova e qualificata maggioranza». Da qui nacque il compromesso storico, una delle cause – probabilmente – della sua tragica fine. Nessun nemico, insomma, nella visione dello statista pugliese, che anche in politica estera ispirò la sua azione alle più ampie aperture e al dialogo senza pregiudizi.
Sarebbe bello che, dalla Puglia, si traessero gli insegnamenti e le lezioni di coloro che hanno contribuito al progresso del Paese, e non soltanto le performances – certo pimpanti ed esilaranti – dei nostri showman e personaggi della ribalta.