il maniero svevo nel barese

A Gravina in Puglia un castello da salvare dai segni del tempo e dell'incuria

Francesco Mastromatteo

Urgono rapidi interventi per la domus federiciana ricca di reperti, tartassata dal tempo. Un patrimonio che va preservato dal rischio di crolli

Il castello «sopra-vive nel significato evidente che vive sopra, che domina con il suo potere sul basso», per citare lo storico gravinese Franco Laiso; attesta una posizione di dominio sul territorio circostante, un paesaggio antropizzato che esso sovrasta e gestisce. Il castello non è solo visto: guarda coloro che l'osservano, avrebbe detto il medievista barese Raffaele Licinio. E oggi, oltre scrutarci, a chiederci aiuto è una domus federiciana, quella di Gravina in Puglia, a rischio crollo. Le crepe, evidenti negli scatti del fotografo Piero Amendolara, riguardano uno degli angoli della facciata a est delle mura perimetrali. L’incuria, aggravata dall’impasse che coinvolge da tempo la Fondazione Ettore Pomarici Santomasi, proprietaria del bene, affligge questo importante monumento, ed è evidente già dalle sue parti cadute in tempi remoti e sparse attorno: archi, soglie di porte e finestre, mensole.

A lanciare l’allarme, gli autori di uno studio innovativo che sta gettando nuova luce sul maniero svevo. Parliamo della ricerca che gli archeologi delle università di Innsbruck e Berlino stanno sviluppando nell’ambito di un progetto che coinvolge anche i siti lucani di Lagopesole e Monteserico. Coadiuvata da studiosi locali, uniti attorno al già vicepresidente della Fondazione Renato Gonsalvo, l’equipe italo-tedesca guidata da Klaus Tragbar e Kai Kappel ha effettuato rilievi che hanno consentito di tracciare un primo abbozzo di ipotesi, sulla base dei dati raccolti, tra i quali alcuni reperti. Trattasi di quel che rimane di una suppellettile usata per versare vino durante i banchetti, ed i cocci di un piatto raffigurante la testa di un falco, forse riproduzione di oggetti più antichi: i rapaci, notoriamente cari al sovrano, presentano un occhio quasi umanizzato. L’indagine stratigrafica su murature e prospetti riguarda la forma originaria e su come si sia modificata nel tempo, ma i lavori sono ancora in fase preliminare, e per riportare le parole degli stessi esperti, sembrano emergere più domande che risposte, inerenti anche al rapporto con gli invasi che in epoca medievale avevano una funzione fondamentale all’interno della rete dei loca solaciorum regi: il team infatti sta studiando la geologia del luogo per trovare l’ubicazione dei laghi artificiali di Pescara e Pantano. Simbolo del potere che Federico II fece costruire fra gli anni ’20 e ’30 del XIII secolo, il castello presenta torrini laterali che potrebbero essere opere successive di una sperimentazione architettonica, aggiunti quando il carattere militare del palacium polifunzionale, sfruttato poi in epoca angioina, divenne preminente.

Si escogitarono soluzioni originali: nella vicina selva, che forniva materiale da costruzione, non c’erano alberi abbastanza lunghi per le travature, che quindi erano a cupola. La profondità delle fondamenta è ancora un mistero dati i restauri compiuti con il cemento che nel 1989 hanno colmato i vani sotterranei, danneggiandoli. Delle quattro torri con finestre, due contenevano le latrine del piano nobile, le altre le voliere e forse un vivaio. Probabilmente collegate con gli ipogei, tranne quella di destra che sembra condurre allo scarico fognario; il torrino mediano, privo di scala, contiene resti di falchi e presenta segni di lavorazione a prima vista più antichi. Al contrario degli altri, a scopo prettamente difensivo, di quello centrale si ipotizza che sia unito al grande ipogeo, più profondo e raffinato a giudicare dalle arcate. Il castrum svevo prevedeva spesso un pozzo al centro e tale cisterna, seppur anomala, rimanda al rapporto con le acque. Con le volte a botte e a doppia entrata, è un vero rompicapo: oltre a porre il problema dell’effettiva funzione, presentano disegni di un assedio e scritte (anche in caratteri arabi) ritenuti di grande interesse dal prof. Fulvio Delle Donne, docente dell’Università di Basilicata associato al progetto: si rende necessario l’apporto multidisciplinare di altri specialisti.

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