La panchina

Con gli occhi chiusi sull'inverno alle porte

Silvio Perrella

«Non devi guardare, non devi guardare, dice a se stesso il signor Acciuga; gli occhi nuovi che ti sono infilati nelle orbite rimaste vuote soffrono di astenia; sbriciolano il visibile; si ubriacano di lacrime»

Non devi guardare, non devi guardare, dice a se stesso il signor Acciuga; gli occhi nuovi che ti sono infilati nelle orbite rimaste vuote soffrono di astenia; sbriciolano il visibile; si ubriacano di lacrime.
Lo dice come si dice un mantra; è doloroso per lui dirlo, ma sente che deve fermare le immagini che gli fanno ruota attorno; le deve fermare per qualche attimo; spegnere le luci; abbassare le palpebre come saracinesche che devono mettere al sicuro quel che dietro di loro.
Quando gli occhi nuovi si ribellano, è inutile fare alcunché. Ci si deve mettere in posizione di sonno sulla prima panchina disponibile e arrugginirsi insieme a lei.
Aspettare che i tremori oculari passino; saper ascoltare il suono della vista, quel sibilo strisciante come un cobra che scende dal naso affilato ed entra nell’ombelico e risale verso il cuore e vorrebbe sgozzarlo, facendone una bacinella colma di sangue.
Il signor Acciuga, quando gli occhi nuovi ricordano il viso di altri nei quali hanno lavorato fabbricando immagini e immaginazioni, sente quanto il suo anfibio lo aiuti a non precipitare nella disperazione più cupa e più scura.
In lui il nero e l’azzurro posso convivere come convivono le sue squame con la pelle, le pinne con piedi, la magrezza assoluta con un largo abitacolo corporeo.
Il signor Acciuga sa dilatarsi, quando è necessario; o restringersi in millimetri pensati ad arte, scivolando nella miniatura di se stesso, nella cellula che ricorda il momento in cui ha generato tutte le altre in un concerto biologico.
E se deve chiudere gli occhi, li chiude; rimane in un buio fosforescente che lo spinge ai viaggi della mente, a quelle escursioni senza una meta precisa che si fanno nei luoghi di confine, stando un po’ di qua e un po’ di là, come sospesi nell’indecisione fertile che sta alla base del suo essere anfibio: uomo di mare, pesce di terra.
Non devi guardare, non devi guardare, dice tra sé e sé; e non guarda se non il rovescio delle palpebre, che hanno come dipinte delle venuzze che sembrano fiumiciattoli trasparenti e lo tengono in ostaggio in un tempo indefinito che non sai mai se sia davvero tempo o sia invece una porzione di spazio che respira lentamente e in silenzio.
Il signor Acciuga ama i luoghi dove il tempo si vede; ma sa che guardare troppo a lungo il tempo che si fa spazio lo investe nel processo tragicamente affascinante della metamorfosi.
Lui è se stesso, un se stesso certo ibrido ma ben precisabile, ma è anche un altro e soprattutto un altrove; diventa, ad esempio, una panchina che si siede su di lui, sulla sua pancia o sul dorso arcuato.
La panchina guarda assestandosi su di lui; e mentre guarda gli occhi di Acciuga hanno delle piccole scosse, come fossero presi in un bradisismo del guardare che può condurre a un gorgo o semplicemente a una piccola piazza, dove Monsieur Teste lo aspetta per discutere con lui di metodi e contrometodi.
Non posso tenere gli occhi aperti, gli dice prima di chiuderli.
Monsieur Teste non si spaventa; sa per esperienza personale cosa significhi guardare con gli occhi degli altri; e sa che la cosa migliore è stare vicino al suo amico in silenzio.
Che magnifico suono è il silenzio quando mette in relazione due amici che non vedono da tempo e diffidando entrambi delle parole a scatafascio amano sentire il tepore che i loro corpi fanno stando l’uno accanto all’altro.
Aspetta che gli occhi si quietino, è come se dicesse Teste ad Acciuga.
Lo sto facendo, risponde a labbra chiuse Acciuga.
Sulle teste di entrambi ci sono delle panchine portatili sulle quali, di tanto in tanto, fanno sosta uccelli intenti a trovare un posto adatto per svernare.
Anche Acciuga e Teste vorrebbero disarcionare l’inverno in arrivo facendo incendio di ogni inessenzialità e fidando sulla comune capacità di forgiarsi scienze singolari, valide di volta in volta per singoli oggetti o singole convinzioni nate dall’osservazione dall’amicizia con le cose e con gli animali.
L’inverno è lì a un passo e loro, con gli occhi chiusi, nuotano nell’invincibile estate che li abita.
È attimo che dura a lungo, almeno quanto un battito di ciglia sospiranti.

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