La panchina
Vento sul Tirreno un mare fratello
Lasciarsi trasportare dalle correnti come un turacciolo. Sentire la superficie dell’acqua e venerarla come una divinità
Seduto sulla sua panchina di fronte al mar Tirreno, il signor Acciuga non può non avvertire la sofferenza che emana da quella massa d’acqua salina.
Una schiumetta sulla superficie lo mette in sospetto; i suoi occhi cercano l’imbarcazione che dev’essersi svuotata le viscere non lontano da lì; il suo naso che fa da vedetta sul viso magro e scavato annusa l’aria che sa di salsedine e della resina dei pini ma che ha come un sentore stralunato; il tatto che viene dal contatto delle pinne con l’acqua è anch’esso intento a percepire qualcosa che non va.
Eppure da lontano quell’antico mare ha ancora la sua forza da spendere e a tratti è ancora trasparente e si srotola e si arrotola con fare sistematico anche se riferito a un sistema che diventa sempre più misterioso.
Il signor Acciuga, pur venendo dalle profondità del mare Egeo, sente il Tirreno come un mare fratello; una distesa d’acqua punteggiata da isole; con coste sinuose e sensuali; e piccole baie dove i pini si spingono fin dentro la risacca.
Ma che il mare soffra e respiri a fatica e abbia su di sé pesi sempre più gravosi da sopportare; e che le imbarcazioni lo maltrattino lasciando scie e chiazze di carburante iridiscenti; che gli individui se ne infischino di lui e lo usino per qualche tratto di giornata sconoscendone potenza e radicamento; di questo come dubitare?
Ormai ogni sofferenza è tutta a vista e proprio perché è così palese e palmare non viene più percepita.
I radar si sono oscurati e si va come si va: ciechi che conducono altri ciechi; tutti o quasi desiderosi di un piacere che non si dà, che scappa via, che si fa siccità.
Il signor Acciuga sente il malessere del mare e sa quanto il mare non vorrebbe essere usato come una bara liquida; un luogo dove i corpi sfiniti di chi lo attraversa con la disperazione nel cuore affondano e perdono per sempre la possibilità fluida e viva del respiro.
Lui si sa di essere fatto d’acqua; si percepisce come una creatura che deve gran parte di quel che è al mare, al suo andirivieni, alle sue profondità, ai guizzi dei pesci.
Sulla sua panchina ha il cibo che gli serve per affrontare il pomeriggio: un fico stillante di gocce vischiose e ed erotiche; un ficodindia dai colori lisergici e da maneggiare con la cura di chi vorrebbe evitare punture e trafitture; un riccio marino che sta sull’asse di legno come sospeso e spera che Acciuga lo grazi e lo tenga lì solo per desiderio d’osservazione; una carrubba.
Il signor Acciuga ama masticare la carrubba di fronte al mare; sa che il suo sapore si diffonde sul palato lentamente e che deve stare attento a tenere sul lato della bocca i carati, cioè i semi che sono tutti uguali e che gli antichi usavano per pesare piccoli oggetti d’oro.
Quando il sapore si è diffuso nella sua bocca, Acciuga lascia scivolare i carati dalla lingua e li dispone in una piccola teca che ha a disposizione nella sua panchina.
Serviranno a pesare le sue sensazioni sull’invisibile bilancia dei sentimenti; serviranno a tenere a mente, alla strega di un rosario laicissimo, i sospiri del mare; serviranno a segnare sentieri per possibilità inesplorate e necessarie.
Anche i pesci, nella pancia del mare, soffrono; e non potrebbe essere altrimenti; contenente e contenuto sono difficili da separare, da tenere su sfere diverse; dunque se il mare soffre, i pesci soffrono come lui; ed entrambi hanno smarrito il linguaggio per dirlo.
Un po’ pesce anche lui, il signor Acciuga se ne sta nel bel mezzo dell’estate a interrogarsi su cosa si possa fare per alleviare le sofferenze dell’acqua salata.
Decide di tuffarsi e lasciarsi trasportare dalle correnti come un turacciolo; di pensare non ha più voglia; vuole compartecipare alle sofferenze della sua patria liquida; vuole indagare con la pelle e le squame le vibrazioni che si diramano sotto la superficie dell’acqua.
Il mare lui lo ama; si potrebbe dire che lo veneri come una divinità. Nuota sott’acqua con gli occhi bene aperti; il riccio di mare, tornato a posarsi su uno scoglio lo segue da lontano; sulla panchina sono rimasti il fico, i fichidindia e i carati. Aspettano che il signor Acciuga torni con un sorriso.