La panchina

Il silenzio prezioso più di ogni parola

Silvio Perrella

Il signor Palomar ha un brutto rapporto con la comunicazione orale che a lui pare viscidume che esce dalla bocca

A piazza del Popolo le panchine sono ventiquattro come le ore del giorno, e solo una era libera quando è arrivato il signor Acciuga e ci si è seduto. È la panchina più vicina alla fontana sul lato che guarda verso il Pincio.
Il signor Acciuga ammira la luce inclinarsi ed entrare nell’ellisse della piazza, come se avesse voglia di riempirla come l’acqua riempe le fontane.
Roma produce tramonti maestosi, che riescono ad imporporare anche la lutulenza del Tevere; ma ancor di più la luce che fa lo slalom tra le cupole e si poggia sugli impiantiti geometrici è uno spettacolo da non lasciarsi sfuggire.
Il signor Acciuga sente che quella luce cura gli occhi dolenti e li fa compagni di cromie, mentre il giorno si tramuta in qualcos’altro che non ha ancora un nome preciso per essere detto. Nelle altre ventitré panchine, che non sono né piccole né grandi, ognuno fa quel che vuole con il tempo che passa e incrocia le gambe o si tiene con le mani ai bordi del travertino che è ancora pregno del calore del sole.
A tre panchine da lui c’è un signore malinconico con degli strani occhiali che forse sono dei binocoli.
Il signor Acciuga sa trattarsi del signor Palomar e sa che non vuole essere disturbato nelle sue misurazioni dello spazio, nel suo spingere la vista negli anfratti del reale, nel matematizzare il mondo sapendo bene che non è del tutto possibile eppure provandocisi ogni volta come fosse la prima.
Il signor Palomar ama il silenzio come il migliore dei balsami; lo ama soprattutto perché ha un brutto rapporto con la parola orale, quello che a lui pare un viscidume che esce dalla bocca e non prende mai una forma esatta e pertinente.
Di tanto in tanto viene a Piazza del Popolo perché qui al vociare dei più dei passanti dei venditori e persino al confabulare delle coppiette può contrapporre la geometria che alla piazza diede Valadier quando finalmente poté realizzare il suo progetto e farne uno spazio che sappia dialogare con il vuoto.
Anche il signor Palomar è consapevole che il signor Acciuga siede su una panchina non distante dalla sua.
E non è difficile immaginare che qualche puntatina dei suoi occhiali-binocoli sia per le sue squame per quei piedi che non sanno ben stare nelle scarpe e un poco scivolano di lato per il brillare della sua magrezza disarmante. I due signori si rispettano e preferiscono intuire più che sapere l’uno dell’altro.
Sulle terrazze del Pincio c’è il consueto viavai, lassù la casina Valadier si prepara ad offrire costosi aperitivi e a Villa Medici tra breve s’inaugurerà una mostra in ricordo di quel Balthus che l’ha abitata tempo e tempo fa come altri artisti francesi.
Stare da soli sulle panchine di piazza del Popolo è un modo per entrambi i signori di rimanere soli nella moltitudine, di esser individui senza quegli individualismi che si fanno avanti nel chiuso delle stanze degli studi degli appartamenti.
Guardare per loro è un’attività che si fa immersi in un silenzio interiore che non va espugnato; agisce in loro quel desiderio di fondare una singola scienza per ogni singolo oggetto.
Che vadano a morte le generalizzazioni e ci sia spazio per ogni diversità, per ogni essere vivente, qualsiasi forma prenda, in quel poco che è l’universo.
La luce radente legge ogni centimetro quadro della piazza, e fa balletto di ombre, salutando il giorno che si va a sotterrare nel fondo del Tevere.
Il signor Acciuga osserva il signor Palomar alzarsi dalla sua panchina, fare cenno a un taxi di passaggio, salirci su e sparire nel traffico che lo porterà verso Campo Marzio.
Da lì punterà il suo sguardo telescopico sui tetti sulle altane sul su sullo svolio degli storni.
Il signor Acciuga rimane sulla sua panchina ancora un po’; ha un appuntamento dal Bolognese, dove la cena sarà servita seguendo la tradizione e dove con la sua ospite potrà finalmente infrangere il silenzio pomeridiano e alzare un calice con la giusta quantità di vino rosso e sentirsi comodo sulla sedia-panchina a lui riservata.
Nel frattempo, mentre la piazza continua la sua vita ignara di lui come di chiunque altro, può rimettere i piedi-pinne nelle scarpe azzurrine e aspettare.

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