La Panchina

Il silenzio laborioso dei Campi Flegrei

Silvio Perrella

Lo aspettava la vasca più bella e accogliente. Non un luogo interno, bensì una conca petrosa a cielo aperto

Non esageriamo, dare in regalo una squama al fenicottero, non è stato come levarsi una costola; però quella mancanza nel corpo sghembo del signor Acciuga si è fatta sentire, tanto da fargli decidere di tornare alle Stufe di Nerone, nei Campi Flegrei.
Ci è andato di notte, nella più completa solitudine, infilandosi in gallerie e cunicoli che lo hanno condotto nella vasca più antica.
Magrissimo e nudo si è immerso nella polla calda e ha aspettato che l’ebollizione gli scuotesse le squame restanti e gli solleticasse i plantari e lo spingesse verso un angolo dove era collocata una panchina in pietra di tufo.
Ogni cellula del suo corpo ha cominciato a parlarsi con l’altra e laddove c’era il vuoto della squama regalata un formicolio ha preso il posto della ferita.
Ma si trattava solo dell’inizio.
Alle acque calde vanno accostate le acque fredde e di nuovo calde, spingendosi di vasca in vasca verso la montagnola fatta di fango.
Quando il signor Acciuga è arrivato lì, la luna prendeva la sua forma in cielo come un’unghia luminosa e gli uccelli e i pesci se ne stavano in vicine lontananze ad accompagnare il rito dello sparire sotto strati di fango grigio.
Squama per squama quella materia molle e malleabile ha ricoperto il sembiante da Chisciotte scheletrico del signor Acciuga, che avrebbe stentato a riconoscersi anche se qualcuno gli avesse messo uno specchio di fronte.
Una particolare attenzione è stata riservata al vuoto dolorante che nella vasca di acqua calda aveva fatto le bollicine come quando si mette il bicarbonato in un bicchiere con limone diluito in acqua.
Quella schiumetta era stato il primo passaggio, una sorte di segnatura di superficie, in attesa che il fango invadesse ogni millimetro, ogni spazio sofferente.
Imprigionato nella sua tuta mimetica naturale il signor Acciuga ha atteso che passasse il tempo, mentre il fango faceva il suo lavoro rabdomantico.
Aguzzando l’udito non era difficile ascoltare il lavorio indefesso dei Campi Flegrei, il ribollio della Solfatara, il sibilo delle fumarole, lo scorrere di acque dolci e salate in matrimoni instabili.
Uccelli e pesci aspettavano anche loro in silenzio, mentre le piante di capperi, abbarbicate tra pietra e pietra facevano brillare fiori bianchi con al centro gli stami rosso-violacei; e una rosa rosa si predisponeva ad aprirsi quando sarebbe ritornata la luce del sole.
Un silenzio indaffarato tra le cellule e le squame si spandeva nell’aria di una notte avanzante, millimetrico nel suo situarsi tra le creature, nello far stare in equilibro veglia e sonno.
Il fango rappreso sul corpo del signor Acciuga cambiava di colore e a seconda dell’azione richiesta assumeva cromie diverse, imitando i colori del mondo circostante, soprattutto delle tante acque in movimento nelle cavità.
Se di lì fosse passato uno dei filosofi presocratici, uno di quei discettatori di elementi primi, di aria di fuoco di acqua, si sarebbe subito trovato a suo agio; e d’altronde quante pietre antiche là nei dintorni testimoniava della presenza fertile degli antenati; di quegli esseri che vivono nei nostri corpi a nostra insaputa.
Il signor Acciuga, aspettando, esercitava i suoi piedi-pinne, seguendo degli stretti corridoi con un fondo di sassolini dove scorreva acqua prima fredda e poi calda.
Andava e veniva quasi senza pensare, lasciando al suo corpo la possibilità di rigenerarsi con i suoi tempi.
Quando la luce si fece strada tra i viventi dei Campi Flegrei, il signor Acciuga si mise a lungo sotto una cascata di acqua tiepida, finché tutto il fango fu colato via.
Lo aspettava la vasca più bella e accogliente. Non un luogo interno come il primo, bensì una conca petrosa a cielo aperto colmata da fonti diverse per gradazione di temperatura.
Scese stando ben attento a non scivolare e s’immerse tra il verdastro delle alghe e i primi pesciolini destatisi dal dormiveglia e il frullio di uccelli in moltitudine di voli.
A un lato della vasca una panchina di pietre laviche lo accolse; la squama mancante era quasi invisibile; solo qualche bollicina saliva in superficie leggerissima e rosso- violaceo come i fiori dei capperi.

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