Meridiane

Luci e attimi calpestati: così corre New York

Silvio Perrella

A Wall Street ecco le colonne neoclassiche vicine all'acqua lagunare; la Statua della Libertà alza il braccio come a Messina

Scendo a New York, la baia è lampo nell’oblò, ne avverto la disarmante acquaticità. Il taxi mi lascia sul margine di un marciapiede; l’albergo non è lontano; il trolley mi segue.
Su su fino al piano della camera; dalla finestra i passanti nella lontananza verticale sembrano disegnati da Saul Steinberg; il fuso orario fa girare i pensieri all’incontrario.
Occhi dappertutto, passi verso la Quinta; all’improvviso la Central Station; fermo sulle scale ad osservare il sommovimento delle braccia che accompagnano i corpi verso i treni; alle pareti gli orologi bruciano i minuti; salgo e scendo attaccandomi ai corrimani; sul tetto le stelle sono saluti improvvisi.
Fuori sale il fiato dai tombini, vado a saltelli, m’entusiamo, mi perdo, tengo d’occhio il ritorno come un filo che si srotola e si arrotola.
I giorni sui giorni, le metropolitane leste, una donna addormentata con la faccia su un libro; risalgo in superficie, la Public Library lungo il cammino, le sue scale, le prime sale, lo scrutare l’intimorirsi il tornare sulla strada ad alzare gli occhi verso le fionde luminose degli ultimi piani.
A Wall Street le colonne neoclassiche vicine all’acqua lagunare; dal Batter Park partono i battelli rossi verso Ellis Island; la statua della Libertà alza in alto il suo braccio come a Messina; prendo respiro su una panchina.
E un giorno un gabbiano s’infila nello spazio a canyon tra i grattacieli e sicuro curva verso l’aperto; lo seguo con gli occhi e con i piedi; e sono al cospetto del Ponte di Brooklyn.
Inaspettatamente la sua nervosità è attutita dalle doghe di legno che accolgono chi cammina o va in bicicletta.
Un labirinto di fili d’acciaio lo tiene sospeso; le volte ogivali sono come dei saluti antichi; m’inebrio d’hybris; sento di essere giunto a una meta senza sapere di quale meta si tratti precisamente; cammino e cammino; mi dimentico che il ponte congiunge Manhattan con Brooklyn; arrivato a tre quarti sto quasi per tornare indietro; godo nell’essere sospeso tra acqua e cielo; mi sento un essere fatto d’aria; sono fratello del gabbiano che ha fatto d’apripista.
D’improvviso capisco che devo continuare, giungere dall’altra parte, planare su Brooklyn, fermarmi a mangiare in un ristorante dove scegli quel che vuoi, lo pesi e paghi alla cassa.
Salgo al piano di sopra; pochi avventori; le finestre sono fotografie già scattate; viene da chiudere gli occhi assaporando i cibi, andando verso un sonno ristoratore che fermi il tempo e lo tenga accucciato sotto al tavolo.
Alla Columbia cerco la stanza di Edward Said, ne scruto i mobili, la scrivania, la sua assenza; di fronte gli edifici della Biblioteca; gli studenti persi nella lettura; gli alberi curvi nell’attesa che la notte gli si poggi sulle chiome come una carezza.
A Broadway la strada diventa obliqua, perde la velocità del rettilineo, mentre si fa notte e al Central Park il mosaico arrivato da Napoli per John Lennon si copre di rose; le lettere che compongono Immagine girano in tondo tra le onde di pietra; il Dakota Building buca il cielo con i suoi tetti appuntiti.
A Utopia Parkaway Joseph Cornell è ancora lì a scrutare vetrine impolverate cercando reperti da far brillare nelle sue scatole iridiscenti leggere come piume; ho alle spalle Charles Simic a guidarmi il passo.
I versi di Marianne Moore di Majakovskij sono calamite che mi riattraggono sul Ponte; ci torno in volo di notte, l’ultima notte, sfidando il vento gelido e le acque terree; le automobili passano lampeggiando invadendo lontananze; ho il berretto di lana calcato fin quasi sugli occhi; la sciarpa sulla bocca; la notte sul petto.
È un saluto, un rito di commiato, un lasciarsi nella sospensione notturna vagolante di luci.
New York come una Venezia nevrotica; ogni attimo si fa avanti e lo calpesto nella furia dell’andare; sono qui conficcato nell’aria buia e sono già altrove; sono sull’aereo e dall’oblò la baia è un lampo.
Sento le doghe sotto ai piedi; avverto i movimenti remoti del Ponte; mi guardo intorno nel bailamme di verticalità luminescenti; sono giunto sin qui per misurare l’asse del Tempo; me ne torno con il frastorno negli occhi.

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