Roma, Sud
Lo sguardo di Levi sul territorio lucano
Seguendo l’usanza ebraica, spesso la lapide è ricoperta di piccoli sassi, ma anche di fiori di campo raccolti nelle campagne vicine e bigliettini commemorativi fissati dalle pietre per sottrarli al vento
Protetta ai lati da due lastre di mattoni in cotto, e affacciata su una balconata che dà sul Pollino e sulle case di Aliano, la tomba di Carlo Levi è una delle mete delle passeggiate culturali e degli eventi promossi dal Parco letterario Carlo Levi, sorto negli anni Novanta per ricordare un artista così legato al territorio lucano da esprimere la volontà di esservi sepolto. Seguendo l’usanza ebraica, spesso la lapide è ricoperta di piccoli sassi, ma anche di fiori di campo raccolti nelle campagne vicine e bigliettini commemorativi fissati dalle pietre per sottrarli al vento.
Carlo Levi, il «torinese del Sud», morì a Roma il 4 gennaio 1972, ma nel corso della sua vita era tornato a percorrere il paesaggio lucano varie volte; Aliano, Grassano, Matera, Potenza, i calanchi. Nella pinacoteca di Aliano sono conservati – accanto a documenti storici, fotografie e litografie – diversi dipinti realizzati da Levi, il quale del resto fu prima pittore che scrittore. Negli anni Trenta il borgo ospitava duemila anime; oggi sono meno della metà. E così l’atmosfera, certamente meno afflitta dalla miseria, si è fatta se possibile ancora più aspro, spettrale, lunare, come scrisse Levi in un passaggio di Cristo si è fermato a Eboli riferito al borgo. «Non si vedeva arrivando, perché scendeva e si snodava come un verme attorno ad un’unica strada in forte discesa, sullo stretto ciglione di due burroni … e terminava nel vuoto … e da ogni parte non c’erano che precipizi di argilla bianca, su cui le case stavano come librate nell’aria; e d’ogni intorno altra argilla bianca, senz’alberi e senz’erba, scavata dalle acque in buche, coni, piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare». La casa che ospitò Levi durante il suo soggiorno obbligato è oggi visitabile, bianca, spoglia, dalla cucina alla camera da letto.
Nel caso di intellettuali come Levi, capaci di saper leggere la realtà sociale e per certi versi antropologica che li circondava andando oltre la dimensione temporale da loro vissuta, viene spontaneo chiedersi cosa avrebbe pensato o scritto davanti ai mutamenti intervenuti nel tempo – o, d’altra parte, riguardo certe attitudini che sembrano immutabili. Come interrogare Pasolini sull’universo dei social media contemporanei, lui che già trovava scandalosa la televisione; così misurare la reazione di Carlo Levi davanti all’incredibile esplosione turistica che ha coinvolto Matera, al suo tempo centro di una desolazione vastissima e adesso popolata nei sassi di una fauna colorata tutta cocktail, street food e Instagram stories. È che proprio non riesco a immaginarlo alle prese con il poke hawaiano a piazza del Sedile.
Ma lo sguardo di Levi non fu solo antropologico; fu indagine, inchiesta. Fu politica, condotta fuori e dentro le istituzioni (venne eletto due volte al Senato tra gli indipendenti del Pci, prima nel collegio di Civitavecchia e poi di Velletri). E così dentro L’orologio ci ha lasciato una fantastica e insuperata suddivisione dei propri connazionali, quella tra contadini e cosiddetti «luigini», dal nome del podestà di Aliano. I primi: contadini, appunto, del Nord come del Sud, ma Levi scorgeva contadini anche tra i proprietari terrieri e gli industriali. I secondi, i «luigini», sono tuttavia più numerosi, e dunque più forti; non solo burocrati o parassiti di varia natura, dalla Chiesa allo Stato, ma di nuovo operai e contadini, oltre che letterati e militari. Dalla loro i «luigini» hanno il numero, e allora trionfano sui primi, e continuano a farlo. Perché i contadini «sono una grande forza che non si esprime, che non parla. Il problema è tutto qui».