Sabato 06 Settembre 2025 | 16:29

«Non rendere vano il sacrificio di mio padre per il bene della nostra Foggia», il ricordo del figlio di Panunzio

 
Redazione Foggia (video Maizzi)

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Redazione Foggia (video Maizzi)

Giovanni Panunzio noto costruttore fu ucciso la sera del 6 novembre ’92 per aver denunciato il racket e fatto arrestare gli estorsori: nel suo nome fu celebrato il maxi-processo a 68 imputati con 47 condanne, che per la prima volta sancì la mafiosità della criminalità dauna

Mercoledì 06 Novembre 2024, 12:16

“Papà temeva quello che poi sarebbe successo. Forse l’aveva intuito. Per questo decise di rinunciare a utilizzare l’auto blindata, a girare armato; diceva: ‘se non possono arrivare a me, se la prenderanno con la mia famiglia: allora meglio io piuttosto che loro”. Così si spogliò di quelle protezioni per salvaguardare noi, i suoi affetti”.

Nelle parole di Michele Panunzio, a 32 anni dall’omicidio del padre Giovanni c’è intatto il dolore di allora. Che convive col ricordo del genitore e l’orgoglio d’essere il figlio di chi col suo sacrificio è diventato a Foggia e in Italia uno dei simboli della ribellione alla mafia. Giovanni Panunzio noto costruttore fu ucciso la sera del 6 novembre ’92 per aver denunciato il racket e fatto arrestare gli estorsori: nel suo nome fu celebrato il maxi-processo a 68 imputati con 47 condanne, che per la prima volta sancì la mafiosità della criminalità dauna.

Adesso che il pizzo i clan lo pretendono da tutte le categorie produttive e che quasi tutti pagano e non denunciano, cosa penserebbe suo padre?
Sarebbe deluso. Lui spese la sua intera vita per portare avanti discorsi di legalità. Avrebbe voluto coinvolgere quante più persone in questi percorsi che sono l’unico antidoto alla violenza dei mafiosi. Ma all’epoca della sua morte di persone che avevano il coraggio di dire ‘no’ se ne contavano pochissime.

Cosa rappresenta oggi suo padre non solo per questa città?
Non voglio dire che papà è stato un santo; era un uomo per bene, un cittadino che credeva nei valori del lavoro, dell’onestà, della famiglia, della legalità.

Il suo ricordo?
Rimarrà sempre nel mio cuore per l’esempio che ha rappresentato. Nei 3 anni del tentativo di estorsione, iniziato con una telefonata anonima a dicembre ’89 con la pretesa di 2 miliardi di lire e conclusi tragicamente la sera del 6 novembre ’92, papà si comportò coraggiosamente, dicendo sempre la verità. Confidava alla Polizia quanto gli capitava; e con gli investigatori furono concordate una serie di azioni per incastrare i delinquenti e non far emergere da subito la sua collaborazione.

Come avete vissuto in famiglia quei tre anni da incubo tra telefonate e minacce, verrebbe da dire profezie, di morte?
Papà ebbe oltre mille giorni per ripensare alla immediata scelta di non piegare il capo, ma non lo fece. Aveva imboccato la strada del rifiuto alla ferocia perché era – e questo vale anche per chi è oggi sotto ricatto - l’unica percorribile per la sua salvezza, dell’azienda, della famiglia.

Ha mai confidato in famiglia il timore d’essere ucciso?
Papa in qualche momento ebbe tentennamenti; chiaro che avesse paura, ma la tramutò sempre in coraggio. E nell’ultimo periodo proprio per timore che i malavitosi non potendo arrivare a lui e se la prendessero con noi, scelse di “spogliarsi” di ogni protezione. Disse: ‘Se devono fare qualcosa, meglio che la facciano a me’.

Cosa ricorda della sera del 6 novembre di 32 anni fa?
Tutto. Rincasai prima di lui, perché mi avvertì che avrebbe assistito alla seduta del consiglio comunale in cui si discuteva di piano regolatore generale. Lo aspettavamo per festeggiare il loro anniversario di matrimonio. A tarda sera venne un conoscente a casa: ‘devi uscire che dobbiamo andare in ospedale perché tuo padre ha avuto un incidente’. Mai a pensare che gli avessero sparato, credetti si trattasse di un incidente con l’auto. Poi in obitorio presi coscienza. Quello che accadde quella sera e dopo è qualcosa che non auguro a nessuno.

Lei, 24 ore dopo, rivolse un appello ai testimoni. E si fece avanti Mario Nero. Chi è Mario Nero per lei?
L’unica persona che ebbe il coraggio di raccontare ciò che vide (riconobbe uno dei killer, Donato Delli Carri poi condannato nel maxi-processo Panunzio inizialmente all’ergastolo, pena ridotta a 26 anni nei successivi gradi di giudizio, ndr). Se non fosse stato per Mario Nero sicuramente non si sarebbe arrivati agli esiti giudiziari. Lo ringrazierò sempre: per me è stato un grande dolore sapere della sua morte qualche anno fa. La sua testimonianza gli stravolse la vita: aveva una famiglia, due bambini, da un giorno all’altro dovette lasciare Orta Nova dove viveva. Ci sentivamo telefonicamente. Mi raccontava le difficoltà di lui testimone di Giustizia e dello Stato non sempre presente almeno nei primi anni; c’erano problemi per il cambio di identità; non aveva documenti; non poteva recarsi in pronto soccorso per eventuali emergenze; se veniva fermato per un controllo dalle forze dell’ordine, talvolta lo scambiavano per un pregiudicato portandolo in caserma proprio perché senza documenti.

Nella Foggia di oggi, nella città della quarta mafia dove “si parla poco e si paga tanto” come denunciato da Tano Grasso presidente delle Federazione antiracket, cosa si sente di dire a chi versa il pizzo ai clan?
Bisogna prendere di petto queste situazioni. Pagare oggi significare lasciare in eredità tale condizione ai figli, ai nipoti. Si deve essere decisi nello scegliere da che parte stare, quella della legalità. Le istituzioni funzionano, le associazioni antiracket sono presenti; il momento è quanto mai opportuno per riscattare se stessi e questa nostra Foggia. Capisco la paura, so bene cosa sia, ma dalla paura bisogna trovare il coraggio per non soccombere. Si può fare con l’aiuto di tanti che vivono nella stessa condizione. Isolare la vittima è ciò che i clan vogliono. Si può e si deve impedire che avvenga.

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