le indagini
Taranto, in 8 finiscono a processo per i fanghi «tombati» al molo San Cataldo: sei persone e due società
A marzo comincia il processo per gli 8 imputati coinvolti nell’inchiesta sul traffico illecito di rifiuti accumulati, dalle attività di dragaggio, nei fondali del molo «San Cataldo»
Comincerà a marzo il processo per gli 8 imputati - sei persone fisiche e due società - coinvolte nell’inchiesta sul traffico illecito di rifiuti accumulati dalle attività di dragaggio dei fondali del molo «San Cataldo» nel porto di Taranto. A chiedere il rinvio a giudizio per gli imputati è stato il pubblico ministero della Direzione distrettuale Antimafia di Lecce, Milto De Nozza che ha coordinato l’inchiesta degli investigatori della Capitaneria di Porto. Il giudice Marcello Rizzo del tribunale di Lecce, ha infine deciso che dovrà esserci un processo per accertare le responsabilità in capo agli imputati. Tra loro, ci sono Fabrizio, Valerio, Claudio e Tiziano Parascandolo, il primo amministratore e gli altri soci dell’omonima società di trasporti e poi un 48enne di Crispiano dipendente della stessa società e infine Pietro Castelli, 85enne di Statte amministratore della «Sia – Servizi Integrati Ambientali srl» difeso dall’avvocato Fabrizio Lamanna.
Nelle fasi preliminari, il gip di Lecce aveva ordinato il sequestro preventivo di circa 1 milione e 200mila euro nei confronti delle tre società: la posizione della «Rcm Costruzioni» è stata tuttavia archiviata prima della chiusura delle indagini.
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, gli imputati ai vertici delle due società - la «Parascandolo» e la «Sia» - avrebbero messo in piedi una «attività organizzata di abusiva gestione di ingenti quantità di rifiuti pari a 16mila tonnellate» di terre e rocce da scavo. Dalle attività condotte dagli investigatori, però, in quel quantitativo c’erano materiali privi delle analisi atte a certificare la loro natura, ma soprattutto erano stati inseriti anche «fanghi di dragaggio» e «materiali misti da demolizioni» che invece dovevano essere smaltiti con una procedura differenze e certamente più costosa. Da quanto contestato dall’Antimafia di Lecce, emerge che tutto fosse stato conferito dalla «Parascandolo srl» nell’impianto della «Sia», autorizzato esclusivamente al recupero dei materiali: quei rifiuti, però, sarebbero poi stati tombati, ossia seppelliti nelle profondità del terreno. In particolare, secondo la pubblica accusa si era trattato di «rifiuti misti, senza alcuna verifica a monte, prodotti, trasportati e smaltiti in modo selvaggio, mescolando rifiuti speciali, terre e rocce di scavo, materiali da demolizione e persino plastiche, al solo fine di tombare in una vecchia cava abbandonata tale materiale per abbattere i costi che il corretto smaltimento avrebbe significato». Un’operazione che secondo il magistrato De Nozza ha sostanzialmente trasformato «un sito autorizzato allo stoccaggio per il recupero in un sito di smaltimento e, quindi, in una vera e propria discarica abusiva».