Il processo

Taranto, la tangentopoli di Maricommi: «Le imprese non erano vittime»

Francesco Casula

Ecco le motivazioni della sentenza sul giro di mazzette della prima inchiesta della Procura. «Il sistema era noto a tutti e tutti pagavano perché era così»

TARANTO - Nella prima tangentopoli di Maricommi, partita nel 2014 con l’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, alcuni imprenditori non erano semplicemente vittime delle richieste di denaro avanzate dagli ufficiali della Marina militare, ma erano parte di un «collaudato sistema di tangenti» che offriva loro il vantaggio di conservare e ampliare «un rapporto economico privilegiato con l'ente».

È quanto scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza con la quale a febbraio scorso hanno condannato a sette anni di carcere gli ufficiali Attilio Vecchi e Marco Boccadamo, assolto Giovanni Caso e Giuseppe Coroneo e dichiarata la prescrizione di alcuni reati per Giovanni Cusmano, Alessandro Dore e Riccardo Di Donna. Il collegio di magistrati, presieduto dal giudice Elvia Di Roma e a latere Federica Furio e Costanza Chiantini, ha soprattutto modificato l’accusa nei confronti degli imputati: non concussione come sostenuto dall’allora procuratore aggiunto Maurizio Carbone (oggi in forza al Csm, il Consiglio Superiore della Magistratura), ma induzione indebita a dare o promettere utilità.

In sostanza per il collegio, dalle testimonianze degli stessi imprenditori nel corso del processo è emerso che sostanzialmente le richieste illecite «non assumevano mai la forma della minaccia esplicita, ma venivano presentate, piuttosto, come meri consigli» per evitare l’esclusione dai futuri appalti e il tempestivo pagamento delle fatture. Gli imprenditori quindi non erano messi con le spalle al muro, ma avrebbero colto in questo sistema illecito un’opportunità di guadagno facile anche se costoso: questa schiera di imprenditori, scrivono i magistrati, «avevano maturato un rilevante grado di smaliziata esperienza nell'ambito dell'ambiente della Marina» al punto da farne una «importante fonte di occasioni di guadagno preferibile - e preferita - al mercato privato e ad altre amministrazioni pubbliche, tanto da assicurarsi nel tempo il pervicace mantenimento, e talvolta accrescimento, dei pregressi e duraturi rapporti negoziali con Maricommi, cercando di impedire l'accesso a nuovi operatori economici».

L’inchiesta, condotta all’epoca dai carabinieri del Nucleo Operativo Radiomobile agli ordini del capitano Pietro Laghezza, aveva chiarito che secondo gli imprenditori ogni ufficiale era «meritevole di essere remunerato» e il pagamento delle tangenti era quindi «ripetuto ed abituale»: molti dei testimoni, secondo i magistrati, «non hanno esitato a precisare che il meccanismo era noto a tutti e che tutti pagavano perché era così». Si pagava. Era quasi la normalità. Il tribunale lo ha definito «un automatismo che spesso non necessitava nemmeno di esplicite richieste e che non subiva contraccolpi nemmeno al mutare dei militari investiti delle cariche apicali, che rinnovavano ciclicamente le richieste e, se anche non chiedevano espressamente, puntualmente ricevevano».

I rapporti tra alcuni degli imprenditori e i militari di Maricommi, quindi erano «spesso ambigui» tanto che l’imprenditore che ha denunciato per primo ha ammesso di aver invitato a una festa familiare uno degli ufficiali a cui aveva pagato le mazzette anche se questi aveva lasciata Taranto da ormai un anno perché trasferito negli uffici di Roma della forza armata. Quasi un do ut des insomma che per anni ha inquinato il tessuto economico tarantino e ridotto sul lastrico le imprese che non sono riuscite a pagare le tangenti.

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