La nave ieri a Taranto
«Disperatamente a galla: così abbiamo aiutato i migranti», parla responsabile soccorsi Geo Barents
Fulvia Conte descrive la scena: «Buio, odore di benzina, gente che chiedeva aiuto, ciascuno nella sua lingua»
TARANTO - Buio pesto, urla, decine di persone in mare. «Siamo arrivati a notte fonda, la barca si reggeva a galla a mala pena, era già piena d’acqua e benzina. È stato un soccorso impegnativo, ma alla fine è andata bene». Fulvia Conte, romana, 29 anni, è la responsabile dei soccorsi a bordo della Geo Barents.
Parliamo con calma, nel primo pomeriggio, quando dalla nave sono ormai scesi a terra, a Taranto, tutti gli 85 migranti raccolti nel Mediterraneo, gli ultimi 41 il primo gennaio scorso nelle acque tra la Sicilia e la Libia. Lì, racconta Fulvia, la drammatica, concitata scena del barchino che stava lentamente colando a picco. «C’era un ragazzo che continuava a gridare disperato perché non vedeva più la sorella, né su quel che restava dell’imbarcazione né tra le onde. Gli altri erano tutti aggrappati a qualunque cosa galleggiasse».
Quanti ne avete salvati?
«Tutti. Tutti e 41. Ma è stata davvero dura, quando siamo arrivati e abbiamo cominciato a distribuire i salvagente, la loro barca si è rovesciata. Era buio, odore forte di benzina, gente che chiedeva aiuto ciascuno nella sua lingua, in arabo, in inglese, in francese».
Tre giorni di navigazione e poi siete arrivati a Taranto. Com’è andata?
«Bene. L’attracco verso le 7, lo sbarco è cominciato alle 9».
La macchina dell’accoglienza è stata efficace, nessun intoppo burocratico, almeno così è sembrato.
«Sì, infatti. Croce Rossa, Unchr, Prefettura, soccorritori, volontari. Si è svolto tutto in maniera organica. È stato un buon intervento».
Altre volte non va così?
«In mare no. Altre volte non siamo riusciti a salvare tutti i naufraghi».
Da quanto tempo lavora sulle navi delle Ong?
«Dal 2018»
Il ricordo più doloroso?
«Nel giugno scorso abbiamo soccorso un barchino che trasportava un centinaio di profughi, Quando siamo arrivati 30 erano già morti. C’era anche una donna che aveva già perso entrambi i bambini, annegati sotto i suoi occhi. Mi sono chiesta come sarebbe stata la sua vita da quel momento. E poi c’era una bambina di 4 mesi, un ragazzo era in acqua e la teneva sulle spalle, tentava di tenerla in vita. Gliel’ho presa dalle spalle e ho tentato di rianimarla, poi sulla nave siamo riusciti a riprenderla, a salvarla. Non ci siamo riusciti con una ragazza, invece, ed era anche incinta».
C’è mai un momento in cui pensa di lasciar perdere? Di tornare alla sua vita «normale»?
«No. Anche nell’intervento di giugno ho pensato che quello era l’unico posto dove avrei voluto essere, perché per una vita che perdi riesci a salvarne un’altra».
A proposito: qual è la sua vita «normale»?
«Sono laureata in Scienze politiche, specializzata in diritto internazionale. Da 12 anni sono istruttrice di vela. Se mette anche il mio background umanitario, capisce perché faccio questo lavoro. Perché ho il privilegio di fare questo lavoro».
Cosa pensa delle ultime norme sui migranti varati dal governo Meloni?
«Allontanare le navi delle Ong dal Mediterraneo centrale significa avere più morti e meno occhi per testimoniare quello che succede».
Qual è secondo lei la soluzione per definire questa emergenza infinita?
«Non gestirla più come un’emergenza. La verità è che noi suppliamo a una mancanza. Se tutti gli Stati costieri organizzassero legalmente il soccorso in mare dei migranti, il cui esodo è inarrestabile, le navi delle Ong non avrebbero più una missione da svolgere. Al momento, non possiamo non continuare a salvare vite».