La riflessione
8 marzo, «Donne ecco come ritrovarsi»: parola dell'autrice di Memorie di una vagina
Parla Stella Pulpo blogger e scrittrice tarantina
TARANTO -Non avevo mai capito quanto mi stessi simpatica, finché non mi sono persa. Finché alcuni pezzi della mia identità, della mia quotidianità e della mia auto-rappresentazione mi hanno abbandonata. Si sono smarriti per strada, così, senza nemmeno dirmi: grazie, ciao, è stato bello finché è durato. È successo con la creatività, con la libido, con la socialità, con la libertà di movimento, con il lavoro, con la solitudine persino, intesa come spazio intimo per scavarsi, indagarsi, allenarsi in quella disciplina faticosissima che di solito sintetizziamo con "accettarsi" (o amarsi, per i più ambiziosi).
Questa scomparsa del sé è avvenuta negli ultimi due anni. Una grossa parte di responsabilità è certamente imputabile alla pandemia e ai lockdown, prima, e alla prospettiva di un conflitto bellico globale, poi. Ma pure, diciamolo, a un lietissimo evento che si è abbattuto sulla mia vita privata: la maternità. E quando dico "maternità" mi riferisco a più aspetti della faccenda:
1. La gravidanza, una dolcissima usurpazione del corpo che ti modifica, ti condiziona, ti toglie il sonno, ti dà la nausea, ti consente di fare alcune cose e te ne preclude molte altre (il super-mammismo mettiamolo un attimo da parte, con permesso)
2. Il parto, che non è affatto un evento trascurabile che si dimentica in quattro e quattr'otto come qualcuno sostiene, anche considerato che è un'esperienza di pre-morte e rinascita insieme, un passo spedito verso l'onnipotenza, uno sconquasso emotivo e fisico che non ha paragoni.
3. Il puerperio, che è tipo la somma ormonale di tutte le sindromi premestruali della vita, concentrate in poco più di un mese, con il suo quasi inevitabile baby-blues (10 giorni a piangere disperatamente) e per quelle che non vogliono farsi mancare nulla, la depressione post partum che è il grande elefante rosa della maternità: c’è ma non parliamone, ancora ci prendono per cattive madri.
4. L’allattamento, possibilmente esclusivo al seno a richiesta, obiettivo essenziale delle prime settimane di vita, da perseguire con ogni mezzo possibile, inclusa l’auto-mungitura.
5. Il corpo che non è più il tuo, non lo riconosci, non entra più nei vestiti e chissà se e quando tornerà quello di prima, di quando avevi appena 3 kg di sovrappeso e ti vedevi grassa, e adesso ne hai altri 10, e a stento hai le energie per farti uno shampoo o tagliarti le unghie dei piedi che sembri Wolverine, figurarsi se ti metti a fare gli squat e gli addominali (le madri ingrassate, fuori da Instagram e da Milano, credo esistano).
6. Il lavoro, che è complicatissimo da coniugare con l’accudimento del neonato e che quasi sempre subisce una battuta d’arresto, un rallentamento, un’interruzione vera e propria, a seconda dei casi, comportando una ridotta indipendenza economica, dunque una maggiore disparità nei ruoli, una subordinazione che difficilmente si concilia con la promessa di autodeterminazione che ci eravamo fatte.
7. Le apprensioni costanti per l’erede del nostro patrimonio genetico (l’unico di cui in effetti disponiamo), che è un esserino totalmente dipendente e indifeso, spesso in balia di neogenitori che di bambini non sanno oggettivamente nulla, che imparano sul campo, giorno dopo giorno, tra un manuale di parenting e un briciolo di buon senso, sentendosi comunque profondamente inadeguati (vale per molti padri, vale per tutte le madri), e che tipicamente nelle prime settimane di vita del pargolo passano più tempo al pronto soccorso che a casa (casa che, per inciso, diventa una specie di caos primordiale perpetuo, improvvisamente minuscola, non adeguata, piena di scatoloni, giocattoli, ciucci, palestrina, sonagli, culla, pannolini, prodottini assortiti, tutine, bodini e una serie infinita di oggetti che finiscono in “ini”. E la cucina, in particolar modo, che versa in uno stato di degrado fino ad allora inesperito, perché anche allorquando uno dovesse riuscire a cucinarsi un piatto di pasta, non è affatto detto che riesca a lavare i piatti).
8. La coppia, che è una specie di essere mostriforme a due teste, miracolosamente sopravvissuto allo schianto di un delizioso asteroide, privata del sonno, annegata nelle urgenze di una vita nuova da costruire, nell’interruzione brusca di una narrazione, individuale e condivisa, che deve rimodularsi sulle esigenze della new entry, mentre entrambi i genitori subiscono una metamorfosi irreversibile (in coglione, lui, e in scassacazzi di prim’ordine, lei).
9. Le famiglie che spesso sono lontane, i nonni su Skype e i cugini su whatsapp, e l’assenza di un conforto fondamentale e di un aiuto materiale, che nei primi tempi fanno la differenza, specialmente se non si è abbastanza benestanti da potersi permettere la tata full time. Ma anche la convergenza sul tuo ruolo di donna di un accudimento che improvvisamente è doppio: figlia di genitori che invecchiano, madre di creatura che cresce.
10. I giudizi costanti su qualsiasi cosa tu genitore, e tu madre in particolare, faccia o non faccia, le infinite scuole di pensiero contrastanti, i consigli non richiesti, i confronti non necessari, le opinioni che chiunque, persino gli estranei, sente in dovere di condividere con te, per spiegarti meglio come devi fare cosa. E il tempo che ci vuole, per abituarsi a essere sotto questa specifica lente di ingrandimento, che ti misura su un parametro nuovo, a cui non eri abituata, persino tu che in quanto donna sei sempre stata giudicata su qualsiasi centimetro della tua pelle, su qualsiasi dettaglio della tua condotta.
Ecco, questa non vuole essere una lamentela e il lettore compulsivo si trattenga dal commentare “Nessuno vi obbliga a fare figli”, perché ringrazio in anticipo, lo so già. Men che meno pretende di essere una rappresentazione normativa che non ammette esperienze diverse. Questa è, semplicemente, la testimonianza di una madre che dopo 8 mesi non ha ripreso le fila di nulla, che dichiara liberamente di non aver trovato nessun equilibrio (ancora) tra chi era e chi è diventata, che cresce sua figlia senza le maglie solide di una famiglia vicina, facendo i conti con un contesto storico, sociale e culturale assai diverso da quello in cui è nata e cresciuta. Una madre che fa - come tutte - il meglio che può con gli strumenti che ha.
Alle donne che per ragioni simili o del tutto diverse si sentono perse, si mancano, non si ritrovano, oggi voglio fare l’augurio di non smettere di cercarsi. Di avere pazienza. Di avere clemenza. Di avere perseveranza (ma quella ce l’abbiamo, si sa). Di avere consapevolezza e di darsi tempo e spazio. A loro e a me stessa auguro di cambiare, crescere, diventare, riscoprire se stesse, come e più di prima. Insomma, di ritrovarsi.