TARANTO -
I pm di Milano Stefano Civardi e Mauro Clerici hanno impugnato in appello la sentenza con cui, lo scorso luglio, il gup Lidia Castellucci ha assolto in primo grado «perché il fatto non sussiste» Fabio Riva, uno dei componenti della famiglia ex proprietaria dell’Ilva di Taranto, dalle accuse di bancarotta per il crac della holding Riva Fire che controllava il gruppo siderurgico. La Procura, che aveva chiesto una condanna ad oltre 5 anni per l’ex manager, ha depositato un paio di giorni fa il ricorso alla Corte d’Appello che dovrà fissare la data di inizio del secondo grado.
Nella gestione dell’Ilva da parte della famiglia Riva, tra il '95 e il 2012, aveva scritto il gup nelle motivazioni della sentenza che aveva cancellato le accuse, la società ha investito "in materia di ambiente» per «oltre un miliardo di euro» e "oltre tre miliardi di euro per l’ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti» e non c'è stato il «contestato depauperamento generale della struttura». Ora la 'palla' passa all’appello.
In un passaggio delle 127 pagine di motivazioni della sentenza (depositate il 7 gennaio), che ha assolto Fabio Riva, difeso dagli avvocati Salvatore Scuto e Gian Paolo Del Sasso, da due accuse di bancarotta per il crac di Riva Fire, veniva spiegato che «alla luce dell’ammontare dei costi complessivamente sostenuti» dai Riva "unitamente alla sostanziale conformità alle prescrizioni AIA (autorizzazione integrata ambientale, ndr) del 2011, è evidente come non possa ravvisarsi quel contestato depauperamento, dal momento che gli elementi in atti», portati dalla difesa, "contrastano con tale conclusione».
Tra le accuse di bancarotta, infatti, la Procura milanese contestava ai Riva di aver omesso di adottare le necessarie misure per la tutela ambientale, di aver, quindi, risparmiato su costi e investimenti e di aver così «depauperato» la «struttura produttiva non adeguandola alla normativa vigente». Del tutto opposta la tesi del giudice, secondo cui non ci fu alcuna frode, ma c'era anzi un «progetto di rilancio» da parte dei Riva.
Nell’ottobre 2017 Fabio Riva e il fratello Nicola Riva si erano visti respingere da un altro gup la richiesta di patteggiamento (rispettivamente a 5 e a 2 anni), concordata con la Procura, per «incongruità» della pena. La prima bocciatura da parte di un altro giudice risaliva al febbraio 2017. Nel febbraio 2018, poi, Nicola Riva aveva patteggiato 3 anni, mentre Fabio aveva scelto la strada dell’abbreviato. Nel maggio 2017 aveva patteggiato 2 anni e mezzo Adriano Riva, fratello di Emilio, l’ex patron del colosso siderurgico scomparso nel 2014, firmando anche la transazione di rinuncia a quegli 1,1 miliardi sequestrati dai pm nell’inchiesta sul crac della holding.
Somma che, con l’aggiunta di altri 230 milioni versati dalla famiglia, era stata destinata in gran parte per la bonifica ambientale dell’area su cui sorge lo stabilimento tarantino.
Se i soldi trovati «nei trusts della famiglia Riva, alimentati con le risorse sottratte al gruppo» fossero stati investiti «quantomeno in parte nell’adeguamento degli impianti alle crescenti esigenze di tutela ambientale, anziché andare ad impinguare le tasche dei Riva in modo occulto, la società non sarebbe incorsa nelle note vicissitudini amministrative e giudiziarie comunque connesse alla crisi del gruppo». Lo scrivono i pm di Milano Stefano Civardi e Mauro Clerici nel ricorso in appello contro l'assoluzione dalle accuse di bancarotta per Fabio Riva, decisa dal gup di Milano lo scorso luglio.
La «massima», scrivono i pm, che sembra possa ricavarsi «dal ragionamento del giudice» di primo grado suona «più o meno così: è lecito per l’imprenditore rubare purché lo faccia per tempo e in modo da non far andare a gambe per aria la società, il che è all’evidenza l’esatto contrario della posizione indiscussa della giurisprudenza in materia fallimentare».
«Solo per completezza - scrivono i pm - si rammenta ancora una volta che l’ammontare delle risorse rinvenute nei trusts della famiglia Riva (sequestrate nell’inchiesta, ndr) alimentati con le risorse sottratte al gruppo corrisponde alla cifra posta dalla legge speciale come provvista per le attività, attuali, di messa in sicurezza ambientale del sito di Taranto, sicché se ne può dedurre che se all’epoca tali risorse fossero state investite, quantomeno in parte nell’adeguamento degli impianti alle crescenti esigenze di tutela ambientale, anziché andare ad impinguare le tasche dei Riva in modo occulto, la società non sarebbe incorsa nelle note vicissitudini amministrative e giudiziarie comunque connesse alla crisi del gruppo»