L'analisi
Dietro il successo di Zalone: il film «Buen Camino» brucia dubbi e record d'incassi
Lo davano per estinto, «a finire» a coda di topo, il fenomeno Zalone. «Buen Camino», in coppia con il regista degli esordi, Gennaro Nunziante, brucia dubbi e record d'incassi
E se Checco Zalone avesse anticipato il trumpismo, ma all'italiana e cristianamente, con garanzia di redenzione finale (nel nuovo film, persino più dei precedenti, quasi a dire: «Oh, noi scherzavamo. Questi l'hanno presa seriamente»)?
Lo davano per estinto, «a finire» a coda di topo, il fenomeno Zalone. «Buen Camino», in coppia con il regista degli esordi, Gennaro Nunziante, brucia dubbi e record d'incassi.
Una delle persone che divora più libri, fra quelle che conosco, è Gennaro Nunziante, che ha diretto tutti i film di Checco, meno «Tolo tolo». Lo stesso Luca Medici, in arte Zalone, non scherza. Ma di Gennaro mi gira per i neuroni (plurale, almeno due: ho fatto la risonanza magnetica. Ho le prove) una sua frase: «Se tutto quello che so non fa ridere mia madre, non serve a niente».
Non pensatela qual cosa detta per sorprendere; guardate dentro la frase. Pensatevi la madre di Gennaro: l'ho fatto studiare, è intelligente, e sa così tante cose, che nessuno spara battute come lui, per farmi ridere. E so' soddisfazioni!
Tenete in mente questa cosa, ché ci torno fra un attimo.
E Luca Medici? Il cruccio dei comici, incluso i più grandi, è di essere assimilati ai personaggi (di norma stupidi) che rappresentano. Fanno ridere gli altri, ma loro sono borghesissimi, suscettibili, seriosi. Per il numero uno, Totò, la sua maschera era solo il cretino necessario per pagargli bollette e servitù. Mentre lui, sua eccellenza Antonio Vincenzo Stefano Clemente Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, vestiva dai migliori sarti, teneva al decoro formale e sostanziale dei «signori» e spese fortune per farsi riconoscere i titoli nobiliari.
Insomma, la regola dei grandi comici è «Io non sono come lui». E più «lui» è impresentabile, sguaiato, rozzo, più ne prendono le distanze, ostentano cultura, educazione e modi che il «loro» cafone non ha. Luca Medici no; fatichereste a riconoscerlo, perché fondamentalmente timido, pare si rimpicciolisca: statura normale (1,73), postura che tende a raccogliersi in sé più che a imporsi nello spazio e agli altri, come il Cozzalone di Checco; tanto questo è prolisso, invadente, cafone, quanto Luca Pasquale Medici da Capurso, è a modo, silente, misurato, capace di confondersi con la tappezzeria.
E non per compensazione caratteriale, simmetria: è una scelta consapevole. Luca Medici vuole scomparire dietro il suo personaggio, tanto quanto gli altri comici mirano a far scomparire il proprio personaggio dietro se stessi. Al punto che l'unico film che Luca Medici ha diretto, «Tolo tolo», ha nei titoli, sui manifesti, come regista, Checco Zalone. Che non esiste, ma ha cancellato l'esistenza del suo interprete. Non credo sia mai successo.
E adesso rileggete la frase di Gennaro Nunziante su sua madre e vedete se, in quella, non si trovi esattamente la stessa sostanza di un Luca Medici (sin sala bin, pah!) che svanisce. È una prova di intelligenza della coppia Medici-Nunziante e forse rigore professionale portato all'estremo: l'opera vinca sull'artefice e non il contrario. Aggiungo una domanda: perché, quasi sempre, almeno da noi, i comici sono sottovalutati in vita e riabilitati alla memoria? Per abbassare certi sopracciò su Totò, dovette chiamarlo Pasolini. Mentre attori e autori «seri» sono più spesso riconosciuti nel loro valore, senza dover tirare prima le cuoia.
Eppure, far ridere è più difficile che far piangere. Per questo può bastare un calcio nelle palle, per far ridere può non bastare il solletico. Quindi, quanto sto per dire sul trumpismo anticipato di Zalone-Nunziante parte da un omaggio alla loro intelligenza.
Checco Zalone calpesta quanto la buona educazione (ovvero l'ipocrisia necessaria a stemperare occasioni di conflitto sociale, almeno nella quotidianità) ha costruito in secoli; dà voce ai sentimenti più immediati (e non mediati), trasforma i pregiudizi in stigma, non ha dubbi, impone certezze da marciapiede, trasforma in diritto quello che avvantaggia se stesso, a spese degli altri. Il tutto con un linguaggio primordiale e persino volgare (intollerabile se usato da altri).
La risata segnala una rottura delle convenzioni (e magari della logica: mia moglie è allergica al sapone che usiamo. Ed è stato necessario cambiare. La moglie).
Eppure, invece di suscitare irritazione, sdegno, più Zalone rimarca le sue caratteristiche, più la gente ride, applaude, partecipa, persino concorda (ricordate il discorso «confindustriale» in «Sole a catinelle»?). E questo può avere una spiegazione che non ci piace, ma va considerata: Zalone dà voce al «come siamo davvero» e non abbiamo il coraggio di essere. Sta sdoganando il prepotente in noi, stufo di limitazioni sociali, legali, politiche e regole di civile convivenza.
Si diceva di dover temere «il Berlusconi che è in noi»; fu data dignità di «opinione» al razzismo (non sono bastate condanne definitive a interrompere la carriera di politici dichiaratamente tali. Anzi, ne hanno tratto vantaggio); l'esclusione dell'altro portata sino a vedere «buona e giusta» la sua eliminazione e se decine di migliaia di esseri umani in fuga sono torturati, schiavizzati, uccisi o muoiono naufraghi in mare, «nessun gli ha chiesto di venire qui», dimenticando che è «il mondo avanzato» il responsabile del saccheggio, della fame e delle guerre da cui scappano.
E si crea assuefazione, si perde il senso della vergogna (che è il controllo sociale sui canoni di convivenza), si impone la prepotenza quale diritto. Ci sono sentimenti forti, visioni che attraversano confusamente l'umanità e ne segnano le stagioni, prima di essere intercettati, portati alla luce. Al cinema, può farlo Checco Zalone, che la butta sul ridere. E funziona, perché è un cerino acceso quando la paglia è già stata ammassata. In politica può essere un Trump (ma mica solo lui) che trasforma la forza in diritto, a danno dei diritti universali (si pensi a cosa e quanto ci è voluto per vederli riconosciuti e con quale facilità sono calpestati...).
Cos'è il trumpismo, se non quest'onda montante che riduce i rapporti umani, politici, alle dimensioni della clava? E se l'Unione europea pretende che pure l'uomo più ricco del mondo rispetti le leggi, Elon Musk dichiara guerra all'Unione, perché si disgreghi, e gli Stati Uniti negano il visto ai rappresentanti di Bruxelles. E si invia un'intera flotta a bombardare barchini in Venezuela per contrastare (a chi vuoi raccontarla?) il traffico di droga: decidono «a vista» per la condanna a morte. Cancellando qualche millennio di civiltà.
E questo comporta il successo politico di Trump (che non è il fenomeno, lo rappresenta, come Checco al cinema) pur se usa la Casa Bianca per vendere i suoi gadget da bancarella e le sue criptovalute. Pensate alla protervia con cui si sono eretti grattacieli a Milano al posto di capannoni dismessi, all'indifferenza con cui sono state accolte notizie (forse meritevoli di approfondimento...) sui conti esteri del presidente della Lombardia o le case di capo e vice capo del governo, il profumo preferito di Fassino (continuate voi l'elenco) e confrontate con le ridicole ondate di sdegno per un cesto di cozze pelose.
E se Checco Zalone fosse un termometro di quanto questa regressione civile stia divenendo «la nuova legge»? Sto esagerando? Quale che sia il tema (fosse pure un trattato di idraulica), ogni opera dice dell'autore e del suo tempo. E dice più di quanto si voglia, non necessariamente essendone consapevoli. Nei film di Checco, il fenomeno è proposto in forma benevola: lui non è cattivo, in fondo è sensibile, ma è fatto così. «È carattere». E, infatti, i film finiscono (cristianamente, in senso culturale, non religioso) con la redenzione, e vissero felici e contenti.
I critici che ne elencano «difetti» (di racconto, di regia, di eccetera) sono quasi sempre orientati a sinistra, forse vedono il dito, non la luna; mentre quelli di destra fanno opera di appropriazione (indebita?), intestandosi Zalone come Pasolini, sino a Dante. Azioni forzate entrambe, ma più furba la seconda, che include, e sciocca la prima, che si isola ed esclude.
Ma non si può tacere della buona salute del cinema pugliese, dal capolavoro di «Palazzina Laf» di Michele Riondino, al successo di «Oi vita mia» di Pio e Amedeo, con Lino Banfi, e ora il nuovo trituratore di record della premiata e ricomposta ditta Zalone-Nunziante. Me', di' tu, mo'!