La storia

Noi, costrette ad andare via da un Sud che ci offriva solo impieghi senza dignità

Fabiana Pacella

Gli amari racconti di due donne pugliesi, storie di partenze e di difficili «restanze»

Ho incontrato pezzi e anime di Puglia in giro per l’Italia, qualche giorno fa. Donne. Resistenti alle intemperie, con le radici del cuore a sud del sud e rami e fronde lontane chilometri. Per necessità, o seguendo la metafora, spinte da venti meno tempestosi dello scirocco di quaggiù.

Durante un viaggio con me stessa, ho visto in faccia una parte di me, critica e delusa, che tento di tenere a bada. E aveva le facce di Maria e Antonella (nomi di fantasia, ndr).

La prima, da vent’anni a Verona col marito, lavora come receptionist in albergo. Preparata, ha girato l’Europa, si è formata e aggiornata. Impeccabile eppure c’era in lei qualcosa di familiare, un tradimento dell’accento.

«Sei pugliese?».

«Sono di Bari».

E via di ricordi e confronti e campanili. Perché il sud è anche questo: un filo invisibile di prossimità che polverizza paralleli e meridiani.

«Come va giù da noi?».

Perché ci fregano le radici, e ci pulsano dentro, e il desiderio è sempre lo stesso: tornare a casa, un giorno e guardare il mare.

«Siamo tornati in Puglia per un colloquio in una struttura ricettiva di lusso con proprietà non locale – confida Maria -, ma ci hanno proposto una paga pari alla metà di quella che percepiamo qui. È stato uno schiaffo in pieno volto, avrei voluto portare il mio know-how nella mia terra, ricongiungere origini ed esperienza, ma niente. In Puglia si accolgono turisti da ogni dove, si vende qualità e bellezza ma a che costo per il lavoratore? Siano andati via da ragazzi e ancora non ci sono le premesse per tornare».

Sorride, fa spallucce, rassegnata: «Resto qui, dove sono rispettata anche economicamente. Forse casa mia è questa, ormai. Ma che peccato, eh? Mi saluti il mare, mi saluti la Puglia».

La seconda, Antonella, ha 30 anni. Altro volto che mi pare uno specchio. Accento quasi tedesco, nessun rafforzativo salentino, pelle chiara, abito tipico, giorni densi di lavoro in una struttura di livello tra i mondi del trentino. Fine sommelier, di un entusiasmo che nulla ha a che vedere con l’algore tipico di lassù. Pugliese anche lei, ci riconosciamo quasi. «Ma sì, la mia idea di lusso è quella di un lusso confidential, diciamo pure in jeans». Che fa tanto sud. Perché si può partire dal luogo d’origine, ma le origini - che è un poco diverso - te le porti dentro.

Tra un lagrein e un gewurztraminer si mescolano partenze e restanze. «La mia storia in Puglia, è stata inizialmente molto bella e piena di speranza, come per molti. Ci sono le mie radici lì. Ero felice e piena di gioia, ma alla fine la mia è anche una storia di fuga. Merita di essere raccontata la storia di chi resta, non di chi va via e smette di lottare. Ho sofferto troppo, la nostra terra mi ha fatto a pezzi».

Non sorride più Antonella. Ha gli occhi lucidi. «Ho dovuto reimparare a credere in me stessa e a smetterla di sentirmi sbagliata perché rivendicavo il diritto di chiedere un aumento, o ance solo di essere pagata per il mio lavoro. Mi hanno fatta a pezzi, o comunque non ho retto, ho mollato e sono scappata. La verità è che chi ha bisogno di lavorare non ha il coraggio di entrare in ufficio dal capo a chiedere un aumento o fare la voce grossa contro chi conta. Ma confido ancora nel fatto che la Puglia cambi questo modo di pensare, perché si è tutto molto bello ma la logica dello schiavismo e dell’omertà nel mondo della ricettività e non solo, deve e può cambiare».

Partire, restare, tornare, hanno pari dignità. Sono scelte. Nessun giudizio, sulle persone né su una terra che, come tutti i sud, è sintesi perfetta delle discrepanze e delle contraddizioni più profonde, laceranti, disarmanti, e come tale maliarda e foriera di indicibile fascinazione.

Si nasce a sud con gli anticorpi in dotazione di serie, per colmare mancanze e recuperare alternative alla bisogna per strada. Ogni tanto ci si racconta una bugia, come fa il consorte che finge di non sapere dell’amante dell’altro. Che amore è, quello della nostra terra? Fedele, mercenario, occasionale, duraturo, a termine? È un moto ondivago e perpetuo di si, no, forse. A seconda.

C’è chi scommette sulla restanza, come battaglia per il cambiamento. Culturale, strutturale.

Chi sulla partenza, più o meno per le stesse ragioni. La battaglia però, a prescindere dalla sponda, sfinisce. Più del sole alto, del mare agitato e del vento forte.

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